RomaNon si fa a tempo a fermare le fiamme da una parte che subito scoppia un nuovo incendio dall'altra: il caso De Luca, la seconda puntata di Mafia Capitale, l'inchiesta sul sottosegretario Ncd Castiglione, fedelissimo di Alfano. Il governo è assediato dai fuochi e Matteo Renzi fa - un po' per convinzione, un po' per necessità - il garantista a 24 carati: difende De Luca, assicurando che nessuno pensa a modificare la Severino per lui, perché «il tempo delle leggi ad personam è finito», ma ricorda che il sindaco manettaro De Magistris governa Napoli ma è «esattamente nella sua stessa situazione», e che nessuno dei due è sfiorato da inchieste su camorra o corruzione. Blinda il sindaco Marino e il governatore Zingaretti: «Hanno dimostrato di essere altro da questa cricca. L'idea che tutti siano uguali è un regalo a chi cerca l'impunità». Quanto a Castiglione, «ho cinque sottosegretari con avviso di garanzia: credo nella Costituzione, si è innocenti fino a prova del contrario. Non starò mai con chi chiede le dimissioni per un avviso». Lo fa dal palco della Festa di Repubblica a Genova, dove va a farsi intervistare dal direttore Ezio Mauro e poi ad ispezionare i lavori sul Bisagno sottobraccio al nuovo governatore Giovanni Toti. E quando un passante gli strilla «faccia di m...» il premier scherza col dirigente di Fi: «Non so per chi fosse, ma me lo prendo io».
Al di là dei principi garantisti, nel governo si ammette che non ci si impiccherà alla difesa di Castiglione, anche perché le accuse sono potenzialmente assai più imbarazzanti di quelle per gli altri sottosegretari indagati. Sotto traccia, il pressing su Ncd per spingerlo a fare un passo indietro è già iniziato, e nei prossimi giorni si prevedono sviluppi. Il caso Roma è una matassa assai più imbrogliata. Anche se non priva di risvolti positivi per il premier, a guardarla con una punta di cinismo: il Pd finito sotto inchiesta ha poco a che fare con la gestione renziana e molto con quelle precedenti. Basta andarsi a vedere i risultati delle primarie nazionali: nel 2012, contro Bersani, Renzi uscì da Roma con le ossa rotte (l'allora segretario col 47% superò la media nazionale, mentre Renzi si fermò al 25%). Ma anche nel 2013 Roma votò in controtendenza col resto d'Italia: Cuperlo stravinse tra gli iscritti col 54,5%, Renzi si fermò al 33%. Roma insomma si è sempre mostrata allergica alla novità renziana, e ora è più facile capirne le ragioni. Oggi però la Ditta romana si trova nel mirino dell'inchiesta, e questo la spinge a cercare un appeasement col segretario, come dimostra il patto stretto al Nazareno tra Guerini e Orfini per la maggioranza e Zingaretti, presidente della regione Lazio ed esponente di punta della minoranza, spesso indicato come il potenziale leader anti-Renzi. Un patto che avrà i suoi riflessi (a vantaggio del segretario) anche nella Direzione di domani sera, dove Renzi offrirà qualche apertura sulle riforme, a cominciare dalla scuola - come ha preannunciato ieri a Genova, ammettendo che «se tutti sono contro, abbiamo sbagliato qualcosa» - ma chiederà il rispetto delle regole di maggioranza nel Pd. Tuttavia il premier, che per ora tiene ferma la difesa di Marino e Zingaretti, sta già studiando anche il piano B: se infatti si abbattesse sul Campidoglio una terza ondata di incriminazioni, o se crescesse la pressione per un commissariamento, le dimissioni di Marino potrebbero diventare inevitabili. E il Pd non può farsi trovare impreparato ad una difficilissima sfida elettorale.
Per questo al Nazareno e a Palazzo Chigi si iniziano già a valutare le possibili candidature, alla ricerca di nomi forti e a prova di bomba sul piano della questione morale: molte le ipotesi, da Roberto Giachetti a Marianna Madia, la prima a denunciare le «associazioni a delinquere» del Pd romano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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