Chi ci ha parlato nelle ultime ore, descrive un Matteo Renzi «maoista». Citando il celebre detto di Mao: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente».
La situazione, in verità, è pessima, in Italia e praticamente ovunque, e il premier lo sa bene. Ma in un momento di grande caos politico, un politico come lui è in grado di muoversi come nessuno dei suoi avversari, al momento, sa fare. «Perché io, a differenza degli altri, so dove voglio andare», la spiega così ai suoi.
Dal colloquio del premier con il presidente Mattarella, giovedì, sono state fatte filtrare due ipotesi: lo «spacchettamento» del referendum in vari quesiti, da votare separatamente (così da stemperare un'eventuale sconfitta) e lo slittamento del referendum al 6 novembre. La prima ipotesi è solo un ballon d'essai, un'«arma di distrazione di massa», la definisce un membro del governo; la seconda invece è assai fondata, anche se in realtà la data potrebbe slittare ancora più in là, dopo la metà di novembre, data prevista per la possibile approvazione della legge di Stabilità in un ramo del Parlamento, su cui Mattarella insiste. E anche a Renzi l'ipotesi non è sgradita: gli consente di puntare su una manovra economica più espansiva possibile, che riesca a smuovere il consenso. E sa di poter contare sulla sponda Ue, atterrita da un possibile terremoto italiano che lascerebbe la Cancelliera Merkel priva di interlocutori di peso. Il cambio di linea di Renzi sulle proprie dimissioni («Anche se lasciassi Palazzo Chigi, resterei segretario») è dovuto soprattutto a questo: l'appello che è arrivato, in primo luogo da Berlino, è chiarissimo: «Non fare come Cameron, perché se no salta tutto». Il tempo in più servirebbe anche a svelenire il clima sull'Italicum, come suggerisce Mattarella, avviando il dialogo su possibili modifiche: «Siamo aperti al confronto», dice il Pd Guerini, purché «su ipotesi concrete e con una solida base numerica».
Quanto al cosiddetto «spacchettamento», macchinosa proposta escogitata dai Radicali e avallata da Scelta Civica e da una parte del fronte del No, Renzi sa bene che non è percorribile, come per primo sostiene l'ex giudice della Consulta Mattarella, perché costituzionalmente infondata e tecnicamente impraticabile: «Non ha alcun senso, - spiega il costituzionalista Pd Stefano Ceccanti - un testo votato come unico per sei volte dalle Camere non può che essere votato come unico dal corpo elettorale». Ma Renzi se ne serve, e se ne servirà ancora, per ri-orientare il dibattito sul referendum, spingendolo verso l'esame di merito, fuori dallo scontro politico, e per mostrarsi flessibile e aperto alle richieste delle altre parti politiche. Renzi ha già iniziato l'offensiva per orientare in positivo la sfida referendaria: «È vero, se vince il No i rischi per l'Italia sono notevoli: ma non dobbiamo evocare la paura. Perché nel nostro Dna c'è la speranza, non la paura. Costruire una proposta, non evocare una minaccia». Se si riesce a «parlare di contenuti, vince il Sì».
Così, mentre le fibrillazioni della maggioranza e il potere di ricatto di centristi e minoranza Pd sembrano essersi afflosciati, vittime della calura estiva e del reiterato messaggio «dopo Renzi c'è solo il voto», ribadito ieri anche dal capogruppo Pd Zanda, a Palazzo Chigi - con l'avallo del Quirinale - si lavora su due ipotesi: vittoria del «Sì» a novembre, che rinsalderebbe Renzi. O vittoria del «No», nel qual caso Renzi, segretario del Pd, darebbe l'avallo ad un governo istituzionale (Grasso) per «armonizzare» la legge elettorale del Senato, e poi andare ad elezioni nel 2017. Con Renzi candidato.
Nel Pd, infatti, ha ancora una salda maggioranza, e ieri dal fronte del presunto frondista Dario Franceschini è arrivato un segnale chiaro di appoggio al premier, con l'intervista del suo fedelissimo Antonello Giacomelli: «Se vince il No, c'è solo il voto». Del resto, ragionano in casa Pd, «un candidato premier alternativo a Renzi, in termini di appeal elettorale, non esiste».
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