Renzi in guerra coi suoi «O riforme o mi sfiduciate»

Il premier alla fronda dem: «Basta diktat, serve codice di condotta». «Landini? Sarà sconfitto». E sulla scuola riapre la discussione

C hi da giorni coltivava l'illusione di un Renzi buonista e pronto al compromesso post-elettorale sulle riforme con la sua minoranza, ieri è stato deluso. Agguerrito e armato di ironia, il premier è volato a Roma ieri sera, di ritorno dal G7 in Germania, ed è planato sulla Direzione Pd e ha preso per le spalle, scrollandolo vigorosamente, il proprio partito. Rispedendo al mittente analisi e richieste della minoranza Pd. «Se qualcuno pensa che il segretario Pd e premier sulle riforme debba fermarsi e ogni volta aspettare finché tutti nel partito sono d'accordo, avete scelto la persona sbagliata», ha chiarito. Spiegando che «sui numeri in Parlamento non ho problemi: la riforma della scuola posso approvarla così com'è anche domattina, a costo di spaccare il Pd». Una concessione però la fa: «Possiamo prenderci altri 15 giorni per discuterne, ma non accetto di sentirmi dire che stiamo distruggendo la scuola pubblica». Se è disposto a fare qualche correzione (e non stravolgimenti, perché «i capisaldi restano quelli»), non lo fa certo perché ricattato «dai diktat della minoranza della minoranza», che non prende neppure in considerazione: «Le riforme servono al paese, non a regolare i conti tra noi».

Non ha riguardi per nessuno, il Renzi che i giornali annunciavano con la coda tra le gambe. Né per la minoranza interna, né per la sinistra e i suoi mostri sacri (liquida la Coalizione Sociale di Landini come un'accozzaglia di reduci alla Scalzone&Piperno, liquida anche Stefano Rodotà come un «uomo della Prima Repubblica» e un giustizialista «poco esperto di garantismo»), e neppure per i suoi, cui rimprovera gravi carenze in materia di comunicazione, «che non è una parolaccia berlusconiana» ma un asset fondamentale per fare politica: «Se non impariamo ad andare in tv diversamente continueremo a balbettare contro quelli più cattivi di noi». Liquida le analisi elettorali sulle Regionali: «Abbiamo perso voti rispetto a cosa? Governiamo 17 regioni su 20». Con alcune falle importanti, che riconosce: «In Veneto non vinceremo mai finché il nostro fisco sarà percepito come persecutorio». Comunque comparare i risultati delle Europee con quelli amministrative è «come paragonare le mele con le pere». Con un dato di realtà però il Pd deve fare i conti: «Non si vince più col voto di rendita», quei serbatoi rossi su cui la “Ditta” si era abituata a contare. Descrive le «tre opposizioni» che si contrappongono al Pd: un centrodestra «ancora vivo, con un Berlusconi ancora capace di farsi vedere da 1 milione e 400mila persone e di vincere in Liguria, sfidandoci in altre città importanti», ma che ora è «guidata dal leghismo di ritorno». La “Coalizione” landiniana viene demolita in poche battute: «Spero che il futuro di nessuno di voi sia lì», dice con un certo sarcasmo alla sinistra interna, sono «personaggi sconfitti dalla storia e anche dal buon senso». Poi i grillini, che continuano a perdere voti ad ogni elezione.

Imbraccia con decisione il garantismo: «La giustizia non è giustizialismo», a sinistra c'è «una cultura di subalternità» verso le manette, «ci facciamo spaventare da tre proteste su Twitter ». Riconosce che sul problema dell'immigrazione occorre cambiare approccio.

Alla minoranza dice che è giusto «confrontarsi sui temi di merito». Anche sulla riforma del Senato, su cui «non voglio perdere neppure un giorno, perché è fondamentale». Ma partendo da un punto fermo: non si può essere tutti d'accordo sempre». E in un partito o in un gruppo «non si può fare ognuno come gli pare», votando o meno le proposte del governo «a la carte». Dunque serve «un codice di condotta interno», che tutti sono tenuti ad osservare. Anche perché, affonda, se si sono persi dei voti non è per colpa del governo ma per l'immagine di un partito «che perde troppo tempo a litigare al suo interno».

E «da chi vota contro la fiducia al nostro governo non accetto ramanzine sull'unità del Pd», replica a muso duro all'ex capogruppo Roberto Speranza, che lo invita a tenere unito il Pd (e quindi a dare spazio alla minoranza) se vuole «arrivare al 2018». E, infine, la sfida: «Chi vuole bloccare il percorso in atto, mi sfiduci».

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