N el giorno in cui al Senato la riforma trova il primo serio inciampo, con la maggioranza che a voto segreto perde circa 40 voti su un emendamento leghista, che passa contro il parere del governo, Matteo Renzi riunisce la Direzione del Pd. E in un micidiale un-due-tre infilza i senatori renitenti alle riforme che ieri lo hanno mandato sotto a voto («costituzionalisti col passamontagna», li irride); mr spending review Cottarelli («Lo stimo, lo rispetto ma faccia quel che crede») e infine Nichi Vendola e gli ex alleati di Sel: «Se pensano che siamo autoritari stupratori della democrazia si accomodino, vinceremo anche senza di loro alle Regionali».
Ma una energica tirata di briglie la assesta anche ai suoi troppo zelanti sostenitori che ieri, dopo il tonfo in Senato, si sono affrettati a fare un parallelo tra quel voto e l'affondamento di Romano Prodi nel voto per il Quirinale del 2013. Dal responsabile della Comunicazione Pd Nicodemo all'europarlamentare Pina Picierno a membri della segreteria come Davide Faraone e Alessia Morani subito dopo il voto era rimbalzato sui social network il grido di allarme: «Son tornati i 101 di Prodi». Un marchio d'infamia e - soprattutto - una drammatizzazione superflua che al premier non è andata giù per niente. E infatti nel suo intervento in Direzione Renzi ridimensiona: «Dobbiamo stare sereni, il remake dei 101 non c'entra nulla». Certo, il voto dell'emendamento che dà al Senato delle autonomie potestà sulle questioni bioetiche «lascia l'amaro in bocca». Ma non è successo nulla di irreparabile, e nel successivo passaggio alla Camera ci sarà tutto il tempo di «rifletterci con serenità» e correggere l'errore. Sbagliato anche criminalizzare eccessivamente il possibile dissenso: «Tra noi ci sono idee diverse e c'è la libertà di esprimerle, nessuno espelle nessuno». Oltretutto, spiega Renzi, «non credo sia una vicenda tutta interna al Pd, anzi scommetterei più su altri», e il riferimento è ai senatori di Forza Italia. Ma «poco importa» cercare i colpevoli, quel che conta, sottolinea, è che la riforma «va avanti a passo deciso», in barba a chi diceva «che eravamo impantanati e che non avevamo i numeri». Il premier ribadisce che alla fine il referendum si farà comunque, anche a costo di «far mancare i numeri per la maggioranza qualificata» che lo impedirebbe, perché «l'ultima parola per noi spetta ai cittadini», con tanti saluti alle accuse di «autoritarismo» dei «costituzionalisti incappucciati» che tentano trappole a voto segreto. Poi apre ufficialmente alle modifiche all'Italicum, che dai primi di settembre sarà all'esame del Senato: revisione della soglia per il ballottaggio, che tanto sta a cuore a Napolitano, possibile limatura di quelle di sbarramento («Ma sempre lavorando insieme ai contraenti del patto del Nazareno, un accordo con Fi che rivendico perché è giusto fare le riforme insieme») e apertura alle preferenze. Un'apertura che fa insorgere anche un renziano doc come Roberto Giachetti: «Non possiamo capovolgere la storia del Pd, che non è mai stato a favore delle preferenze. Allora io voglio avere il diritto per fare la battaglia per i collegi uninominali». Il premier (che secondo molti dei suoi usa la disponibilità sulle preferenze più che altro per ammorbidire il dissenso, ben sapendo che Berlusconi comunque non le vorrà) spiega che i collegi sono difficilmente compatibili con l'impianto dell'Italicum, ma non si sbilancia.
L'importante, ribadisce, è che le riforme vadano avanti. E agli «incappucciati» che nel frattempo in Senato assediano Grasso e fanno le barricate per bloccarla manda a dire: «Ogni settimana di ostruzionismo è un punto in più per noi nei sondaggi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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