L' ostacolo più pericoloso sulla strada della riforma, e Matteo Renzi lo fa capire chiaramente, non è certo la minoranza del Pd, come al solito divisa e confusa, ma è Pietro Grasso. Lo dimostra anche lo svolgimento della Direzione Pd di ieri, dove mezza minoranza (in testa Gianni Cuperlo, ringraziato dal premier) ha chiaro che sarebbe suicida rompere sul cavillo della nomina dei senatori ed è pronta all'accordo, tant'è che il voto finisce all'unanimità per Renzi, con la fronda che esce per non spaccarsi. E Bersani che suggella: «Da Renzi un'apertura significativa: se si intende che gli elettori scelgono i senatori e i consigli regionali ratificano va bene, è quello che abbiamo sempre chiesto».
Ma se Grasso decidesse di ammettere gli emendamenti anche sugli articoli già votati due volte, tutto scapperebbe di mano. E quindi Renzi mira lì: «Se il presidente del Senato applica la Costituzione e il regolamento senza stravolgimenti, la soluzione tecnica su come si scelgono i senatori la troviamo in dieci secondi netti», dice alla Direzione Pd. «Ma se apre l'articolo 2 anche nelle parti già votate in doppia conforme sarà un fatto inedito, e sarà necessaria una convocazione di Camera e Senato». Nella foga, gli scappa il lapsus, e pochi minuti dopo (mentre fuori si scatena una burrasca, Vendola lo accusa di pressioni al presidente del Senato, Grasso fa trapelare di essere infuriato e pure dal Quirinale si invita ad evitare scontri frontali), Renzi corregge: «Nessuna minaccia a Grasso. Ovviamente volevo dire che chiederò la convocazione dei gruppi del Pd, per capire cosa fare davanti a una decisione inedita: com'è noto il presidente del Consiglio non ha potere di convocazione delle Camere».
Ma non è certo sul tema del lapsus che si incentra l'indignazione di chi denuncia «pressioni su Grasso»: quell'annuncio di convocazione eventuale dei gruppi Pd ha un senso molto chiaro, il premier - nonchè segretario del Pd - è pronto a mettere sul piatto il destino del governo, e ad aprire una crisi, se qualcuno, fosse pure il presidente del Senato, proverà a far saltare la riforma. Del resto Renzi lo dice chiaro: «Questa legislatura era nata male, con una non vittoria. Un anno e mezzo fa era morta, io mi sono assunto il rischio di provare a cambiare le cose. Ci stiamo riuscendo, ma senza riforme questa legislatura non esiste», scandisce. Le carte sono in tavola, la vexata quaestio su cui si incaponisce da mesi la minoranza Pd è del tutto secondaria: «Non è un punto dirimente, se si evitano i diktat di minoranza e si mette da parte l'elezione diretta, esclusa dalla doppia conforme, si può trovare un punto d'incontro». E con una punta di perfidia, per spiegare che la «designazione» dei futuri senatori attraverso un listino, poi ratificata dai consigli regionali - che è la mediazione cui si lavora a Palazzo Madama - dovrebbe andar bene a tutti, cita il caso Bersani (che ha disertato la riunione): «Nel '95 Pier Luigi non fu eletto ma designato per fare il presidente della Regione Emilia Romagna, e nessuno ebbe da ridire, mi pare». In ogni caso, «i toni perentori di chi dice “o si scrive come diciamo noi o niente” sono respinti al mittente», dice, e il riferimento è sempre a Bersani e ai suoi prodi. Fatto sta che al momento del voto, la bellicosa fronda Pd si squaglia.
E Renzi si leva pure la soddisfazione di ricordare che furono proprio loro a chiedergli di «fare la mossa ardita» di sostituire Letta a Palazzo Chigi per «fare le riforme»: «Quella svolta fu decisa proprio qui, in questa stanza. Il primo patto del Nazareno lo abbiamo fatto tra noi, prendendo atto che il governo precedente non ce la faceva. La storiellina del golpe non è la realtà».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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