«La riforma del mercato del lavoro in Italia non è più rinviabile. Lunedì presenterò le mie idee in Direzione, ci sarà un dibattito e si discuterà, ma poi si vota e su quel che si decide si va avanti tutti insieme». Dagli Stati Uniti, dove il numero uno di Fca Sergio Marchionne ha dichiarato renzianamente che l'articolo 18 «crea diseguaglianze e non è giustizia», arriva una doccia gelata sulle speranze della minoranza Pd di uscire con qualche scalpo da esibire dallo scontro sull'articolo 18. Il premier, che ieri a New York ha intrattenuto una platea di investitori al Council of Foreign Relations spiegando come vuole cambiare l'Italia, non pare né preoccupato dai 40 senatori firmatari di emendamenti né granché propenso a mercanteggiare sotto la loro pressione. Anzi, come suo costume li bastona anche un po', sia gli oppositori interni che quelli esterni come la Cgil: «Gli esponenti della sinistra, dirigenti del mia parte politica e non della destra, pensano che vada ad ogni costo mantenuto uno Statuto dei lavoratori di 40 anni fa, per il quale è il giudice a decidere se si può licenziare. Va cambiato».
Poi si mostra ottimista, convinto che «il mio partito vuole investire sul futuro, non sul passato», quindi il cambiamento si farà. E come dice lui, perché assicura il premier ai suoi tra un evento e l'altro della frenetica trasferta americana «se sperano di mettermi paura facendo la voce grossa per ottenere qualche cedimento, non hanno capito bene». La traduzione che ne traggono nella minoranza Pd è che il premier «ci vuol far contare, in Direzione, e vuole che resti agli atti che tra lui e noi finisce 80 a 20. Come era prevedibile», come dice uno dei più realisti nel variegato gruppo di fondisti. Insomma, le quotazioni della trattativa pre-Direzione, su cui puntava la minoranza per uscire dal voto di lunedì nel parlamentino Pd con un documento unitario che raccogliesse almeno alcune istanze di modifica del Jobs Act, ieri sera erano decisamente in calo. La trattativa, se mai, il premier la aprirà dopo aver inchiodato la minoranza ai suoi numeri. Né c'è alcuna intenzione di raccogliere le minacce di Susanna Camusso («Se Renzi non tratta con noi dovremo valutare lo sciopero generale»), tanto che la stessa leader della Cgil poi ammorbidisce i toni e spiega che «ci può essere una stagione» in cui l'articolo 18 viene sospeso, «ma deve essere transitoria».
L'assemblea della minoranza Pd, martedì sera, ha visto posizioni molto lontane, da quelle lealiste col governo di Amendola o del ministro Martina a quelle bellicose di Fassina e D'Attorre, pronti a sfidare a tutto campo Renzi e a minacciare il referendum interno sull'articolo 18. Opzione liquidata però come «non utile» da Guglielmo Epifani. «A chi usa questa battaglia tatticamente, per riprendere spazio dentro il Pd avverte il renziano Angelo Rughetti ricordo che il Pd del 40% non è più il partito di nicchia del 25%, con sindacato di riferimento: è un partito che deve dare risposte a tutti». A dare una mano a Renzi, complicando la già difficile vita della minoranza Pd, ieri ci ha pensato Beppe Grillo, invitandola ad ammutinarsi al premier: «È l'occasione per mandarlo a casa». Col risultato di costringere i dirigenti dell'opposizione interna al Pd a fare quadrato intorno al premier e al suo governo.
«Far cadere Renzi? Sarebbe da irresponsabili», taglia corto Gianni Cuperlo. Il bersaniano Miguel Gotor liquida Grillo come «un piccolo ayatollah che vuol solo indebolire il Pd», mentre il capogruppo Roberto Speranza accusa: «il populismo dei Cinque Stelle è il vero nemico della sinistra».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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