Roma - «Della manovra correttiva che ci chiede Bruxelles non voglio sentir parlare». Con queste icastiche parole il segretario del Pd, Matteo Renzi, avrebbe intimato al ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, di continuare a oltranza le trattative con la Commissione europea relativamente alla procedura di extra-deficit che pende sulla nostra testa e soprattutto sulle nostre tasche.
Al di là delle motivazioni puramente politiche (firmare un qualsiasi provvedimento che aumenti le tasse sarebbe un duro colpo alla popolarità del Pd e di un Renzi in grande sofferenza dopo la sconfitta referendaria), l'intento sarebbe genericamente condivisibile: ulteriori sacrifici comprometterebbero la capacità di ripresa. Il vero problema, tuttavia, è l'autorevolezza di una leadership nel momento in cui avanza una proposta.
E autorevolezza in questi casi fa rima con coerenza. Il Matteo Renzi, che oggi invoca la resistenza passiva contro gli euroburocrati sfidandoli all'apertura della procedura di infrazione contro un Paese che comunque rispetta la soglia del deficit/Pil, è lo stesso ex presidente del Consiglio che è sempre stato molto attento a non irritare troppo l'interlocutore comunitario. Andiamo a ritroso. L'anno scorso l'Italia ottenne il via libera a una legge di stabilità 2016 nella quale l'uso della flessibilità era stato eccessiva grazie a un arguto trucchetto. La mini-correzione chiesta da Bruxelles (lo 0,15% del Pil, circa 2 miliardi) fu effettuata attingendo a un Fondo stanziato presso Palazzo Chigi e utilizzando una quota di entrate straordinarie della prima voluntary disclosure. Il resto fu maquillage di (finta) spending review. Quel Fondo sarebbe dovuto servire ad abbassare le tasse, dunque alla richiesta di Bruxelles non solo Renzi e Padoan chinarono la testa, ma lo fecero a suon di miliardi. D'altronde, la stessa procedura di collaborazione volontaria nasce anche come escamotage per recuperare risorse fresche e non indispettire l'Europa.
Andiamo ancora un po' più indietro. Alla Stabilità del 2015, varata alla fine dell'anno precedente, con la conferma del bonus da 80 euro e i supersgravi per le assunzioni dei lavoratori dipendenti. Certo, quell'anno non ci fu bisogno di una manovra correttiva proprio perché la manovra aumentò di importo fino a 36 miliardi di euro. Nelle pieghe del documento si inserì l'aumento del prelievo fiscale su casse di previdenza, fondi pensione, polizze vita e fondazioni bancarie. Oltre agli enti nati in seguito alla privatizzazione degli istituti di credito, furono penalizzati le Casse di previdenza professionali (prelievo aumentato dal 20 al 26%) e i fondi pensione (tassazione incrementata dall'11,5 al 20%). Tasse nascoste delle quali il grande pubblico non si rende conto perché non tutti controllano la capitalizzazione del proprio conto previdenziale, ma che fanno ugualmente male al portafogli.
E sempre a proposito di 80 euro. Non si creda che il bonus varato a metà 2014 sia stato gratis.
I dieci miliardi necessari a finanziarlo sono stati recuperati per circa 2,6 miliardi dall'incremento della tassazione sulle rendite finanziarie dal 20 al 26% su prodotti di investimento, conti correnti e depositi postali. Anche quella decisione fu presa per non dispiacere troppo a Bruxelles, altrimenti la Commissione non avrebbe mai autorizzato uno sgravio in deficit. Ecco perché di Renzi oggi si deve dubitare.
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