Renzi a picco: noi opposizione I dirigenti: dimissioni inevitabili

Secondo le proiezioni il Pd al 18,9%, si pensa al successore Il segretario: «Non faremo la stampella dei grillini»

D al 40 al 20: la notte più i primi exit poll sono stati un raggio di speranza cui aggrapparsi, con quella forbice che ondeggiava tra il 21 e il 23%. Sopra quella fatidica soglia psicologica che farebbe la differenza tra un Matteo Renzi pronto a resistere alla testa del suo partito e una deriva inesorabile verso le dimissioni.

Ma la speranza è durata poco, il tempo di arrivare alle prime proiezioni sui voti reali. Per di più fatte sul Senato, dove lo zoccolo duro della sinistra parte avvantaggiato per anzianità. Invece, l'asticella scivola improvvisamente sotto quella soglia e il Pd viene attestato tra il 18 e il 19 per cento. Alla Camera i numeri si confermano. «Siamo ai livelli del Pds di Occhetto nel 94», dice un dirigente Pd, ricordando la storica debacle. Il leader Dem, sfidando la sorte, decide a metà serata di mettersi in macchina e scendere da Firenze a Roma, dove la sede del Nazareno è assediata dai giornalisti. Renzi si chiude nella sua stanza al secondo piano con lo stato maggiore più ristretto, da Martina a Lotti, da Orfini a Guerini. Insieme, osservano raggelati il brusco calo dei numeri del centrosinistra. Così brusco che c'è chi confida la speranza che la lista Bonino non superi la soglia del 3%, consentendo al Pd di annettersi qualche parlamentare in più.

Nessuno tira conclusioni, la parola «dimissioni» rimbalza nei corridoi, tra i dirigenti c'è chi dice: «Non stanotte, ma domani è inevitabile».

Dalla minoranza Pd avevano già alzato l'asticella, preventivamente: «Sotto il 22% non possiamo reggere», avvertiva Gianni Cuperlo prima della chiusura delle urne. Come dire che le dimissioni del segretario verranno chieste comunque, e che la minoranza orlandiana vuole aprire subito la conta interna. E nel Pd si aprirebbe una difficilissima successione, con molti che guardano a Gentiloni come possibile exit strategy soft, altri che pensano a Veltroni come salvatore di quel che resta della patria. Oppure chissà, perché la batosta investe l'intera sinistra e gli scissionisti di Leu stanno messi anche peggio e traballano sull'orlo del quorum.

Il segretario, già dai primi exit poll, metteva le mani avanti: «Se questi sono i risultati, noi siamo chiaramente sconfitti. E l'onere di provare a dare un governo al paese deve prenderselo chi ora canta vittoria. Noi saremo all'opposizione, punto». Non sono parole casuali: il leader Pd sa che, con i grillini sopra la soglia del 30%, l'ipotesi di un incarico ai Cinque Stelle per provare a cercare una maggioranza non è escluso. E a quel punto, in nome della «governabilità», anche a sinistra potrebbe partire la corsa alla «responsabilità»: «Quelli di Leu, pur di sopravvivere, sono già pronti a dare i loro voti a Di Maio. Ma anche nel Pd qualcuno potrebbe iniziare a ragionare in questo senso», dice un esponente dem. La risposta di Renzi è netta: «Manco morti. Se il popolo ha dato ai grillini la maggioranza, non possono pensare di venire a chiedere a noi di fare la stampella». Lo stesso discorso dovrebbe valere, sulla carta, anche per un tentativo di governo a maggioranza centrodestra. Un argine che bisogna vedere quanto e se reggerà, se nel Pd - con le dimissioni di Renzi e la vacatio della leadership - si aprisse il liberi tutti.

Il primo quadro consegna una sola certezza: nessuna maggioranza autosufficiente è possibile, e Paolo Gentiloni - se così sarà confermato - è destinato a restare a Palazzo Chigi mentre il capo dello Stato tenta di sbrogliare la matassa.

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