Dieci anni fa, la riforma fiscale ebbe effetti solo per dodici mesi. Nel 2006 Romano Prodi, stimolato da Diliberto e supportato tecnicamente da Tommaso Padoa-Schioppa e Vincenzo Visco, la cancellò. E con essa anche lo «scalone Maroni»: la riforma delle pensioni che Monti e Fornero riesumarono per decreto. Paradossi della Storia: oggi Renzi (che viene pur sempre dal partito di Prodi) prova a rispolverare una riforma fiscale che, al momento, appare «monca» rispetto a quella cancellata nel 2006.
La riforma fiscale in questione è quella che il governo Berlusconi (attraverso i ministri Tremonti e Siniscalco) avviò con due moduli distinti. Il primo (nel 2004) a vantaggio delle fasce meno fortunate dei contribuenti. E venne introdotta la «no tax area»: la soglia di reddito sotto la quale non si paga l'Irpef. Il secondo (nel 2005) raggiunse scaglioni di reddito più alti, ed alzò la soglia della «no tax area». Con effetti importanti sulle buste paga di lavoratori autonomi e dipendenti.
Il primo modulo introdusse uno sconto fiscale di 5 miliardi. Il secondo, di 7. Oggi si parla di uno sconto fiscale per le persone fisiche da 10 miliardi di euro, riservato esclusivamente a chi ha meno di 15mila euro di reddito. I due moduli di riforma di dieci anni fa favorirono la crescita del pil nominale fino a superare il 4%. Gli «80 euro» non hanno minimamente inciso sulla crescita.
Da notare, che sempre «quel» governo Berlusconi aveva già introdotto la decontribuzione per i neo assunti, limitandolo - però - alle imprese meridionali; recuperando così una misura del governo precedente (cosiddetta Visco-Sud) che era inciampata in una procedura d'infrazione europea per aiuto di Stato. Ed aveva anche abolito per intero l'Ici sulla prima casa; anche in questo caso, completando un percorso già intrapreso. Mentre aveva ridotto in percentuale (il 40%) il peso del costo del lavoro sull'Irap: percentuale che oggi Renzi vuole alzare al 100%.
Anche dieci anni si discuteva di parametri europei. Nel 2003 l'Italia (presidente di turno) aveva congelato la procedura d'infrazione per deficit eccessivo a Francia e Germania. L'economia europea era in crisi. E Berlusconi - a carte scoperte (come sta facendo oggi la Francia) - dopo molte resistenze, propose ed ottenne una modifica del Patto di Stabilità.
Il negoziato fu violento. E lo gestirono in prima persona Siniscalco (ministro dell'Economia) e Bini Smaghi (sherpa). Al termine del Consiglio europeo che stabilì - contro il parere della Commissione Ue presieduta da Prodi - la riforma del patto di Stabilità, tutti i leader si congratularono con la delegazione italiana. Eppure, il deficit interno viaggiava intorno al 4%. L'Italia, cioè, aveva potuto ottenere flessibilità di bilancio in cambio di riforme strutturali: esattamente quella che invoca oggi Renzi.
E quelle riforme erano appunto la riforma fiscale (i due moduli) e la riforma delle pensioni (lo scalone Maroni). Tra l'altro, queste riforme strutturali erano state definite (per tutta Europa) dal Consiglio europeo di Lisbona nel Duemila.
E sostenute dal premier dell'epoca, Massimo D'Alema, in stretta collaborazione con Tony Blair.Una volta diventato ministro degli Esteri del governo Prodi, D'Alema votò a favore della cancellazione delle due riforme strutturali introdotte dal governo Berlusconi.
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