La resa della Francia che si rassegna al terrore

Il premier Valls ammette di avere la certezza di altri attentati. Ma il disastro è firmato Obama

Alla ritirata siamo pronti. Per la sottomissione ci stiamo attrezzando. L'ammissione della resa occidentale di fronte alla minaccia del terrore islamista non è più un'ipotesi. E neppure un'impressione. L'evidenza dell'imminente capitolazione emerge dalle dichiarazioni rese in queste ore del premier francese Manuel Valls, dal nostro ministro dell'Interno Angelino Alfano e da quello della Giustizia Andrea Orlando. «La questione - ammette Valls - non è sapere se ci sarà un altro attentato, ma quando». Un'ammissione d'impotenza riproposta da Orlando quando delinea una «minaccia globale» capace di mettere «tutti a rischio» e da Alfano quando ricorda che «non c'è nessun paese a rischio zero». Nessuno, insomma, pensa più di poter sconfiggere il terrorismo islamista. Nessuno ipotizza di combattere il fanatismo per impedirgli di colpirci al cuore. Parigi, Roma e il resto d'Europa accettano il drammatico arretramento delle linee di difesa, certificano una Caporetto già avvenuta. Dopo l'11 settembre, la prima indispensabile trincea solcava le vette dell'Afghanistan, attraversava le città dell'Irak. Oggi si snoda come un vulnus inguaribile tra le nostre piazze, porti, periferie. Perché - come riconoscono implicitamente Valls, Orlando o Alfano - la mossa capace di regalare lo scacco matto al nemico è già stata fatta. Loro, gli adoratori del Califfato, hanno semplicemente sfruttato l'acquiescente complicità di quanti - inneggiando all'utopia multiculturale - si son tirati in casa il cavallo di Troia del jihadismo. Valls, Alfano e Orlando da questo punto di vista non hanno responsabilità, ma il loro invito a una battaglia di retroguardia non è esente da colpe.

Immaginiamo cosa sarebbe successo dopo l'uccisione di Aldo Moro se lo Stato italiano si fosse chiuso in trincea anziché mandare il generale Carlo Alberto Della Chiesa a stanare i terroristi. E come sarebbe finita nel 2001 se gli Stati Uniti avessero permesso che l'Afghanistan talebano restasse il verminaio del terrore. Oggi succede proprio questo. E con un'aggravante non da poco. La resa di Valls, Alfano e Orlando è la conseguenza degli errori commessi dal leader della nazione che dopo il 2011 ha guidato la lotta al fanatismo jihadista e ha sacrificato più soldati per fermarlo. Il primo a suonare la ritirata da Irak, Siria, Libia e da tutte le prime linee dell'antiterrorismo è stato Barack Obama. Con lui l'America ha prima inneggiato alle «primavere arabe» e poi assistito inerte alla metamorfosi che le hanno trasformate nelle incubatrici dello Stato Islamico. Con lui l'America si è illusa di poter delegare la lotta al Califfato a curdi e iracheni. O peggio a stati come il Qatar, l'Arabia Saudita o la Turchia.

Ma in questa corsa all'autodistruzione non mancano le responsabilità degli europei che - succubi dell'infatuazione obamiana - hanno confuso il mostro generato dalle «primavere arabe» con il nuovo «redentore». Dal 2011 fino al 2013 Gran Bretagna, Francia, e persino l'Italia hanno assistito inerti alla diaspora dei volontari europei pronti a unirsi all'Isis e agli altri gruppi jihadisti attivi sul fronte siriano.

Due estati fa solo la diplomazia vaticana e la Russia di Vladimir Putin hanno fermato la tentazione di un'America e di un'Europa pronte a sostituire il regime siriano di Bashar Assad con quello di chi ci uccide nel nome di Allah. Ma la lezione non ci è bastata. Così ora mentre l'Isis avanza, s'ingrandisce, acquisisce le forme e le modalità di una piovra, noi arretriamo ancora. E ci prepariamo a una resa chiamata sottomissione.

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