Riaperto il caso di Cascina Spiotta: morì Mara Cagol

Dopo quasi 50 anni vanno alla sbarra a Torino Azzolini, Zuffada, Moretti e Curcio

Nella foto Renato Curcio, anche lui indagato
Nella foto Renato Curcio, anche lui indagato

«I l ruolo di capo che mi viene attribuito è una immagine mediatica che non corrisponde alla realtà dei fatti» (Renato Curcio, interrogatorio del 20 febbraio 2023).

Renato Curcio, 83 anni. Mario Moretti, 78 anni. Lauro Azzolini, 81 anni. Pierluigi Zuffada, 78 anni. Quattro vecchi che il 26 settembre dovranno comparire davanti a un giudice preliminare del tribunale di Torino per uno dei primi, tragici episodi degli anni di piombo. Una storia di quasi cinquant'anni fa, quando i quattro imputati erano nel gruppo dirigente delle Brigate Rosse e insieme ai loro compagni si preparavano a dare il via alla stagione di sangue che tre anni dopo avrebbe raggiunto il suo punto più alto con la «campagna di primavera», il rapimento di Aldo Moro.

É un tuffo nel passato, l'imponente massa di documenti che la Procura torinese mette alla base di questo cold case del terrorismo rosso: il conflitto a fuoco tra carabinieri e brigatisti del 5 giugno 1975 alla Cascina Spiotta, nelle campagne piemontesi di Arzello. Nella cascina i br tenevano prigioniero l'industriale Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima: per la sua liberazione era stato chiesto un riscatto di un miliardo di lire. Una pattuglia dell'Arma arrivò alla cascina, e fu il finimondo. I carcerieri cercarono di aprirsi la fuga con pistole e bombe a mano. Sul terreno rimasero un appuntato, Giovanni D'Alfonso, e Margherita «Mara» Cagol, la donna che insieme a Curcio aveva fondato le Br. Un tenente dei carabinieri, Umberto Rocca, venne centrato in pieno da una delle bombe a mano lanciate dal brigatista che era con la Cagol: l'esplosione gli staccò di netto un braccio e gli strappò un occhio. Poi il brigatista sparì nella boscaglia. Per quarantasette anni il suo nome è rimasto un mistero.

Ora la Procura di Torino è sicura di avergli dato un nome: Lauro Azzolini, uno della generazione brigatista cresciuta a Reggio Emilia nel culto della «Resistenza tradita», armata con gli arsenali dei vecchi partigiani comunisti. Ad accusarlo, dicono i pm, le sue undici impronte digitali sul memoriale interno alla Br ordinato dalla direzione strategica dopo il catastrofico esito dell'operazione - Gancia liberato, la Cagol morta - e trovato nel covo milanese di via Maderno: sette fogli da quaderno battuti a macchina e con gli schizzi a mano della cascina. E contro Azzolini ci sono per i pm anche le intercettazioni ambientali compiute durante la nuova inchiesta, le centinaia di ore in cui i trojan inoculati dai carabinieri del Ros hanno fornito uno spaccato senza precedenti di quanto resta oggi della prima generazione brigatista: con le sue ostinazioni e le sue spaccature interne.

Nell'ottobre 2022, quando il suo nome iniziò a circolare come sospettato, Lauro Azzolini rispose lapidariamente al Giornale: «A tale proposito e ad altri una cosa si sa: che la responsabilità se l'assunse per intero l'Organizzazione Brigate Rosse». Quando sono stati i pm a convocarlo, Azzolini si è rifiutato di rispondere, e così hanno fatto molti degli ex brigatisti chiamati all'inizio dello scorso anno in Procura a Torino: Franco Bonisoli, Pierluigi Zuffada, Roberto Ognibene, Rocco Micaletto. Anche il grande capo Mario Moretti è rimasto muto. Altri invece accettano di rispondere: non solo i pentiti come Patrizio Peci e Alfredo Buonavita, ma anche big come Curcio, Nadia Mantovani, Tonino Paroli, Raffaele Fiore. Quasi tutti parlano per dire di non sapere nulla di quanto accadde: come Curcio che rifila la responsabilità dell'operazione alla colonna torinese delle Br, «prima di sentire la notizia alla radio non sapevo neanche che il sequestro Gancia si fosse verificato». Lo contraddice a verbale Raffaele Fiore: «Un sequestro di persona a scopo di finanziamento doveva essere deciso a livello di comitato esecutivo e di direzione strategica». C'è chi come Alberto Franceschini, da anni in rotta col resto del gruppo, coglie l'occasione per lanciare un sospetto: «Lessi il memoriale in carcere, in alcuni parti mi è sembrato plausibile ma presentava vari punti deboli. Mi sembrò strano che una persona fosse riuscita a scappare da una situazione del genere».

I vecchi brigatisti vengono seguiti e intercettati per mesi. Azzolini sa di essere nel mirino, sta zitto, azzittisce. Ma il 17 marzo 2023, parlando con un vecchio compagno, si lascia andare a un lungo sfogo sulla impreparazione militare dimostrata nella sparatoria: «Ma se io fossi stato addestrato, secondo te, alla Cascina Spiotta.. Mi hanno dato un M1 che non sparava, una svizzera (una bomba, ndr) che se contavi fino a cinque ti scoppiava in mano dopo il tre. Mara aveva il mitra in mano ma non l'ha usato, c'hai il mitra e non usi il mitra? Io cado e nella botta ho perso la pistola, se uno era addestrato non andava così».

Azzolini come esecutore materiale, Zuffada come

complice, Moretti e Curcio come capi: questi i ruoli per cui la Procura vuole processare i vecchi brigatisti. Il reato è da ergastolo, ma se otterranno le attenuanti generiche i quattro se la caveranno con la prescrizione.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica