Cosa è giusto fare? È giusto proseguire con la chiusura delle scuole e il coprifuoco quando il mondo del lavoro arranca? Se l'economia spinge per tornare al più presto alla normalità, la comunità scientifica frena.
Ne abbiamo parlato con il farmacologo Silvio Garattini, fondatore dell'istituto Mario Negri, per capire la posizione di chi interpreta l'emergenza tenendo conto, innanzitutto, delle informazioni che arrivano dai vetrini di laboratorio.
Garattini, secondo lei è giusto continuare a tenere chiuse le scuole?
«Nelle zone rosse la riapertura è fuori discussione. Serve che restino chiuse ancora una settimana. Per il resto della Lombardia si potrebbe pensare a una riapertura solo nel caso in cui i dati fossero stabili».
Il mondo del lavoro scalpita.
«Se tra oggi e domani i numeri dei contagi dovessero rimanere stabili, si potrebbe pensare a una chiusura delle scuole e del resto fino a mercoledì. Sarebbe un giusto compromesso tra le esigenze economiche e quelle di contenimento dell'emergenza. Dieci giorni consecutivi di chiusura potrebbero essere sufficienti. Tutto dipende dai numeri dei casi positivi al test».
Secondo lei è stato creato troppo allarmismo o, al contrario, si rischia di sottovalutare l'emergenza?
«È stata fatta molta confusione. Il problema del nostro paese è che ognuno ci mette del suo. In ogni caso le decisioni prese sono state logiche. Meglio essere restrittivi prima anziché pentirsi poi di non averlo fatto per tempo».
I virologi dicono che il virus sia poco più di un'influenza. Quindi non ci dobbiamo preoccupare più di tanto?
«Sta qui il punto. L'errore è pensare che l'influenza sia leggera. Non va sottovalutata. Basti pensare che, pur avendo un vaccino, abbiamo migliaia di morti all'anno. Perciò paragonare il coronavirus a un'influenza non significa declassarlo».
Anche secondo lei i numeri del contagio aumenteranno nei prossimi giorni?
«Sì, di sicuro. Come ha più volte spiegato anche la virologa Ilaria Capua dalla Florida, dobbiamo aspettarci un incremento dei contagi. Consideriamo che il virus era già in giro ben prima che scoppiasse l'allerta. Quindi ora faremo i conti con i casi che quindici giorni fa erano già in incubazione».
Gli ospedali ce la faranno ad accogliere tutti i pazienti?
«Al momento sì, vediamo nel prossimo futuro. Parallelamente a quella del coronavirus ci sono altre casistiche gravi, anche se fanno meno rumore».
A cosa si riferisce?
«Ad esempio ai 10mila pazienti che ogni anno muoiono in Italia perché hanno sviluppato la resistenza agli antibiotici. Per loro e contro i batteri che li hanno colpiti non ci sono cure. Ma se ne parla poco, quel discorso fa meno paura».
Misure drastiche, notizie di ogni tipo e in sovrabbondanza. Un po' difficile che non si semini il panico, non trova?
«Per questo è fondamentale spiegare bene le cose alla gente e in questo la comunità scientifica ha una grande responsabilità. Innanzitutto è importante comunicare i numeri in modo corretto: senza dire quanti sono, ora per ora, i casi sospetti ma comunicando solo i numeri dei pazienti positivi al test. E poi basta con i mille bollettini annunciati da chiunque. Ce ne vuole uno solo, ufficiale e gestito dalla Protezione civile».
Cosa spaventa di questo virus?
«Non c'è la cura. Abbiamo visto che a morire sono le persone già in cattive condizioni fisiche, come già accade con l'influenza. L'analogia tra le due infezioni sta qui.
Per il resto, l'Oms comunica che l'80% dei malati è asintomatico. Solo il 20% è grave e la percentuale di decessi è tra il 2 e il 3%. Il virus non è particolarmente rapido nella sua diffusione ma i problemi ci sono quando si verificano troppe polmoniti tutte in una volta».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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