Questione di giorni e non di ore, ma l'intesa sulla riforma della giustizia alla fine in qualche modo si troverà. Perché il governo la considera centrale in chiave Recovery, ma anche perché Giuseppe Conte non ha intenzione di seguire l'ala più barricadera del M5s, quella che si dice disposta perfino a mettere a rischio la tenuta dell'esecutivo pur di non votare un provvedimento che riscrive completamente la riforma voluta dall'ex Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede. D'altra parte, è il ragionamento dell'ex premier, con i gruppi parlamentari in frantumi non è certo questo il momento di rischiare una crisi. Anzi, esattamente il contrario. Adesso Conte ha «bisogno di tempo» per cercare di prendere davvero in mano le redini di un movimento che oggi risponde a spinte diverse e a volte contrapposte.
Ieri, però, è stato il giorno dello stallo nelle trattative. Anche perché il confronto diretto di questi giorni tra Mario Draghi e Conte - diversi i contatti telefonici tra i due - ha creato una certa agitazione nel centrodestra. Che in commissione Giustizia della Camera ha deciso di muoversi in maniera ostruzionistica proprio per rispondere alle indiscrezioni delle ultime ore che raccontavano di un accordo ormai alle porte tra Palazzo Chigi e il M5s. Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia hanno infatti presentato un ricorso al presidente della Camera, Roberto Fico, su alcuni emendamenti dichiarati inammissibili. Uno stratagemma che ha fatto slittare di 24 ore il voto. Ma che è sopratutto il sintomo di una forte insofferenza verso i rumors che parlano di un imminente via libera di Draghi ad alcune richieste avanzate da Conte. In particolare quella di prevedere l'imprescrittibilità non solo per i reati di mafia e terrorismo, ma anche per quelli che prevedono l'aggravante mafiosa o terroristica (come per esempio l'associazione o il concorso esterno). Un punto di caduta che avrebbe il disco verde del ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Anche perché risolverebbe un problema tecnico rispetto a una serie di processi che rischiano di finire «spezzettati». Ma che non convince affatto il centrodestra, perché significherebbe equiparare fattispecie di reato lontanissime, come una strage di mafia con un concorso esterno. Vorrebbe dire, spiega Enrico Costa, tornare al «fine processo mai».
Dei mal di pancia del centrodestra, ovviamente, sono al corrente sia Draghi che Cartabia (ieri hanno avuto un lungo incontro a Palazzo Chigi). Il premier, non a caso, ha scelto la via della prudenza e da Palazzo Chigi ieri si guardavano bene dal confermare che l'accordo fosse ormai a un passo come da giorni veicolano dall'entourage di Conte. Si continuerà dunque a lavorare nelle prossime ore, nel tentativo di trovare un punto di caduta su gli anni necessari a far scattare la tagliola della improcedibilità sui reati legati a mafia e terrorismo. Con Forza Italia, sostenuta da Lega e FdI, che rilancia sulla possibilità di allargare il perimetro della riforma anche all'abuso di ufficio.
Il rischio, paventato dal premier più volte, è che lo stallo di ieri possa rivelarsi cronico.
D'altra parte, il provvedimento è stato licenziato all'unanimità dal Consiglio dei ministri poco più di due settimane fa ed è ovvio che rimettere mano agli emendamenti del governo al ddl penale significa in qualche modo riaprire il confronto all'interno di tutta la maggioranza. Alla fine, però, in un senso o nell'altro un'intesa si troverà. Perché Draghi vuole chiudere prima dell'estate e perché nessuno - nemmeno Conte - è disposto davvero a far saltare il banco.
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