Ma che premier d'Egitto (quello vero arriva oggi a pranzo, a Villa Doria Pamphilj). Con la testa ancora ai «successi» mediorientali, Matteo Renzi da ieri pomeriggio ha ritrovato una vecchia amica che non riesce a rottamare: la stessa Italia aggrovigliata sui problemi che aveva mollato alla partenza. Da Crocetta a Marino («Se sono in grado di governare bene governino, sennò vadano a casa»), dalle riforme imballate alle bugie sulle tasse («Faccio le riforme e butto giù le tasse, piaccia o non piaccia alla minoranza del Pd. Rispondo agli italiani, non a Bersani e D'Alema»).
Il problema di fondo, però, ormai sembra un altro: che entrambi, Matteo e l'Italia, stanno capendo di non esser fatti l'uno per l'altra. Toccare mille fili, sperando di azzeccare quello giusto, ha creato un tale guazzabuglio che sarebbe bello uscirne presto. L'ultimo sarà la riforma Rai, che Renzi vuole chiudere entro metà-fine settembre (prima che cominci la sessione di bilancio, cioè). Il 31 luglio si vota al Senato, poi avanzerà nella giungla di Montecitorio. Si dà già per certo il ricorso a un decreto legge o alla questione di fiducia. I grillini sono sul piede di guerra, anche perché un emendamento del governo, presentato ieri a sorpresa, attribuisce al direttore generale i poteri di amministratore delegato ma, soprattutto, stabilisce in via transitoria che, senza riforma, il nuovo Cda verrà nominato con le norme della Gasparri. Un modo per fare pressione sui riottosi del Pd, e far loro chinare ancora la testa.
All'insostenibile debolezza di Matteo, i nemici drizzano le orecchie. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris descrive la situazione nel Paese reale: «I tagli e le norme di Renzi sono piombo sulle amministrazioni locali. Affianca dichiarazioni propagandistiche sulle tasse a tagli ai Comuni che significano ulteriori tasse». Da Forza Italia si reclama uno sforzo di concentrazione: «Renzi stia attento ai conti - avverte Mara Carfagna -: se servono 75,4 miliardi per non aumentare le tasse, che coperture ha per abbassarle?». Massimo D'Alema affonda nel burro: «Il premier ha annunciato di tutto, si tratta di una manovra di 50 miliardi e di capire da dove cominciare. La priorità è abbassarle ai poveri e al lavoratori, come prevede la Costituzione e feci io. Non ai ricchi».
Gli ex rottamati ritrovano fiato e stimoli nuovi. Si dice che anche Enrico Letta, liberatosi dallo scranno parlamentare, mediti un gran ritorno a tutto campo, invocato dalla piazza e dall'Europa. Mentre Pier Luigi Bersani i sassolini va a toglierseli in tivù. «Ormai parlo liberamente - esordisce l'ex segretario -, per me è tutta salute. Renzi con me può fare quel che vuole, ma gli altri, come Speranza e Cuperlo, non deve trattarli come musi lunghi (lo ha detto nell'Assemblea all'Expo, ndr ), perché quelli cercano di tenere nel Pd gente a disagio. Gente così non si insulta. Anzi, la si apprezza. Non mi piacciono queste continue battute: Renzi deve rispettare chi la pensa diversamente. Se non si discute, non si chieda poi disciplina di partito... Se poi si cerca Verdini, allora, si crea un problema di portata maggiore... Cosa aspetto io, che qualche cosentiniano mi dica che devo andare fuori dal mio partito?». L'arrivo di Verdini e C. è preoccupazione che mette angoscia al partito. I bersaniani chiedono una «verifica con la base». «Sarebbe un errore gravissimo lavorare a una stampella di trasformisti di destra», dice l'ex capogruppo Speranza, che Renzi non ha ancora degnato di una risposta.
Il governo, però, sa benissimo di avere numeri che non tornano. Persino alla Camera, dove ieri si è dovuti ricorrere alla questione di fiducia numero 41 sul cosiddetto «dl fallimenti». Ancora più grave: in commissione Affari costituzionali del Senato, sulla pregiudiziale di costituzionalità alla riforma della Pubblica Amministrazione, ha dovuto votare all'ultimo momento la presidente Anna Finocchiaro, così da evitare un tonfo clamoroso (è finita 13 a 12). Anche la riforma del Senato è in procinto di subire cambiamenti, come dichiarato ieri da uno degli estensori, l'ex saggio Quagliariello.
Di toppa in toppa, si spera nella ruota della fortuna. Da dove tutto è partito.
Il Ncd ci ripensa: ritoccare l'Italicum (appena varato) non è una bestemmia. Si riparte dal via?
Sulla riforma del Senato Renzi al Senato ha numeri risicatissimi, forse. Se ne riparla a settembre
La Camera ha accolto la richiesta di dimissioni da deputato dell'ex presidente del consiglio Enrico Letta (Pd). I sì sono stati 287, i voti contrari sono stati 82. «Non mollo la passione per la politica che ho da quando i miei genitori mi portarono a via Fani - ha detto Letta in aula -. Non mollo, rilancio in altri luoghi con altri tempi. Vi chiedo di interpretare le mie dimissioni come un rilancio per una politica diversa nella quale il noi prevalga sull'io». Questo il commento di Alessandro Di Battista (M5S): «I deputati del Pd prima hanno pugnalato Letta alle spalle e oggi gli hanno fatto la standing ovation. Degni rappresentanti della repubblica dell'ipocrisia».
Annunciando il voto contrario di Forza Italia, il capogruppo Renato Brunetta è tornato sul cambio Letta-Renzi al governo e ha detto: «Vorremmo capire da Renzi che cosa è accaduto con il colpo di palazzo nel gennaio del 2014».Sulla riforma della Pa il Pd lamenta «ostruzionismo» al Senato. Addio all'ok prima dell'estate
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