Uno Stato umano con chi è stato disumano si mostra forte o si mostra debole? Ruota tutto attorno a questo dilemma morale il dibattito sull'apertura della Cassazione a un possibile differimento della pena o addirittura alla concessione degli arresti domiciliari a Totò Riina, il boss dei boss, una belva sanguinaria a condannato a un numero di ergastoli che messi in fila coprono il tempo passato dalla scoperta dell'America, e che pure potrebbe morire a casa sua. Perché il no del tribunale di sorveglianza di Bologna alla concessione dei benefici al più terribile nemico dello Stato del dopoguerra in considerazione del suo stato di salute (86 anni, una duplice neoplasia renale, una situazione neurologica compromessa, una grave cardiopatia) è stato sbianchettato dalla Corte Suprema riaprendo tante ferite guarite a mala pena.
L'avvocato di Riina, Luca Cianferoni, fa il suo lavoro e plaude alla decisione della Cassazione: «Uno Stato non ha bisogno di far morire in carcere un povero anziano. Se ha bisogno di accanirsi così ha problemi di crescita», e pazienza se sentir definire Riina povero anziano dà i brividi. Ma sono pochi quelli d'accordo con il legale. Lo è il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte, per cui «la sentenza della Cassazione è la prova che lo Stato è più forte della mafia», con buona pace dei parenti delle tante vittima di Riina. Lo è, un po' a sorpresa, Roberto Maroni, presidente della Regione Lombardia, che in mattinata mostra il volto buono: «Sono d'accordo con quello che ha detto la Corte di Cassazione perché l'ultimo atto della vita deve essere garantito in modo dignitoso a chiunque, anche al peggiore dei criminali, altrimenti tanto vale reintrodurre la pena di morte». Poi nel pomeriggio corregge il tiro: «Non ho mai detto che Riina deve essere rimesso in libertà, ho solo detto che umanamente accetto la pronuncia della Cassazione». Tra le due dichiarazioni c'è la scomunica da parte di Matteo Salvini: «Riina può marcire in prigione. Io sono contro la pena di morte per cultura, ma l'ergastolo è l'ergastolo e, se ti chiami Totò Riina, resti in galera fino in fondo. Curatelo, se lo dovete curare, ma in galera. In una cella di 2x2, senza luce e tv».
La faccenda è di quelle delicate, in grado di far vacillare il garantismo più cristallino. Il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti non ha dubbi: «Totò Riina - dice al Corriere della Sera - deve continuare a stare in carcere e soprattutto rimanere in regime di 41 bis. La Cassazione dice che non è motivata a sufficienza l'attualità del pericolo, ma siamo perfettamente in grado di dimostrare il contrario. Abbiamo elementi per ribadire che Totò Riina è il capo di Cosa Nostra». Anche la presidente della commissione antimafia Rosy Bindi è «contraria ai domiciliari perché Riina è ancora pericoloso, è ancora il capo di Cosa Nostra, la sua famiglia è mafiosa. Il suo ritorno in quel contesto finirebbe per riconoscere a lui ancora un ruolo, e la casa di famiglia si trasformerebbe in un santuario della mafia».
E su facebook Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ucciso 25 anni fa da Riina a via D'Amelio, non si sorprende: «Lo sapevano da 25 anni, da quando gli hanno commissionato la strage di via D'Amelio, assicurandogli che non sarebbe morto in carcere. Se davvero fosse liberato starebbero pagando le cambiali che hanno firmato 25 anni fa. A che serve continuare a gridare giustizia e verità...». Ecco, a che serve?
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