di Daniele Abbiati
I n un'estate, calendario alla mano, ancor meno che in fasce, diciamo pure appena uscita dalla sala parto, già risuonano alti i vagiti di armenti, contadini e meteorologi. Ma di bucolico non c'è nulla, in quest'Italia rinsecchita e boccheggiante. L'idillio con il bel tempo si è subito trasformato nel solito incubo. Siccità. Del Po è rimasto soltanto un po' perché i suoi diretti collaboratori non raggiungono il minimo sindacale, e lui vorrebbe, se potesse, licenziarli in tronco.
Giuliacci & Co. l'avevano pur detto, in sede di commento al passato inverno, quando marzo s'era appena insediato e già sapeva di fine aprile, e quando aprile mostrava i muscoli di un maggio cresciuto troppo in fretta: occhio, gente, le precipitazioni sono precipitate soprattutto in quantità, il gelo ha gelato l'acqua lassù, oltre le nuvole, troppo lontana per essere utile, a futura prossima memoria, a noi comuni mortali. E ora ci troviamo senza l'ombrello protettivo delle provviste, ci sentiamo tutti come cicale imprevidenti e tradite. «Acca due non ho» è una formula chimica maligna, a lungo andare significa deperimento, indebolimento, affogamento nella secchezza che desertifica il corpo e la mente.
Nell'Italia che era un tempo «il giardino d'Europa» s'è di nuovo guastato l'impianto di innaffiatura, il capo dei giardinieri pare essersi messo in sciopero per una rivendicazione di cui non ci capacitiamo ma di cui, utenti impotenti, paghiamo le conseguenze. E il guaio è che non possiamo precettarlo, che nessuno può farne le veci, al massimo possiamo elevare preci, come immobili e speranzose danze della pioggia di indiani metropolitani e paesani. Ma non è la stessa cosa. Senza un intervento dall'alto saremmo letteralmente fritti, sfrigolanti alla maniera di totani e calamaretti nella frittura. E il fegato ci si appesantirebbe non per il superlavoro di un piatto impegnativo e soporifero, ma per la rabbia e la sete che tengono svegli anche la notte.
La Pianura Padana non è più Padana, è soltanto pianura d'arsura, un vicino West mediterraneo, impolverato e insabbiato. Ma anche altrove la normalità dell'emergenza sta bussando come un postino arrogante che porta cattive notizie. In Piemonte, Liguria, Trentino Alto Adige la febbre è alta quanto le proverbiali colonnine di mercurio delle frasi fatte e dei bollettini stretti parenti dei bollini, rossi ovviamente, da applicare alle giornate esodate. E al Sud monta l'onda «africana» non soltanto delle persone fisiche e disperate, ma anche del clima che corre verso il climax dell'afa e che anch'esso fa disperare.
Tuttavia, in mezzo all'aria fritta dei discorsi (come questo che state leggendo) potremmo, una tantum, diradare la nebbia dei comportamenti irresponsabili e lasciare spazio a una banale considerazione, semplice come bere un bicchier d'acqua, quando c'è.
Se l'acqua è una risorsa, anzi la principale risorsa, e se ci viene donata a fondo perduto, come un'eredità proveniente da un ignoto zio d'America il quale però potrebbe anche modificare il suo ricco testamento, perché ci ostiniamo a non tutelarla e, peggio ancora, a sprecarla? Perché facciamo docce che durano quanto diluvi universali? Perché quando laviamo i piatti lasciamo il rubinetto aperto fra insaponamento e sciacquatura? Trattandosi di acqua, i metri cubi, come la matematica, non sono un'opinione, sono un tesoro, e noi lo dilapidiamo in un gioco in cui l'azzardo somiglia troppo a un suicidio. Siamo fatti di acqua, ma evidentemente non abbiamo rispetto per noi stessi. Siamo uomini o temporali?
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