Cronache

"Un ritardo di 40 anni, ma mi sono emozionato. Ricordo ancora il terrore non cerco vendette"

Il figlio del macellaio ucciso nel '79 da Luigi Bergamin: "Ma è come se fosse successo ieri"

"Un ritardo di 40 anni, ma mi sono emozionato. Ricordo ancora il terrore non cerco vendette"

Tre componenti del commando che assassinó suo padre erano scappati in Francia. «Sono emozionato, anzi sconvolto per le notizie che arrivano da Parigi - spiega Adriano Sabbadin, figlio di Lino, il macellaio di Santa Maria di Sala ammazzato dai Proletari armati per il comunismo il 16 febbraio 1979 -. Sappiamo che Luigi Bergamin, uno dei dieci che dovevano essere arrestati, è in fuga. Chissà».

La giustizia nel suo caso ha bussato con quarant'anni di ritardo.

«È vero ed è anche strano. L'unico ad essere finito in cella è stato a suo tempo Diego Giacomin, il killer che sparò gli otto colpi contro papà. Credo che abbia già scontato la pena».

Gli altri?

«Cesare Battisti, riparato in Francia e poi in Brasile, l'hanno trovato tre anni fa. Adesso inseguono Bergamin che era nell'auto dei terroristi e ritenuto l'ideatore di un altro omicidio commesso dai Pac, quello del maresciallo Santoro a Udine».

Poi c'è Paola Filippi.

«Era il palo quel giorno e pure lei, guarda la combinazione, era emigrata nell'ospitale Francia. Ma non c'è nella lista. Non so perché».

La caccia continua?

«Non si tratta di vendetta, sia chiaro, ma di ricerca della giustizia. Mi spiace, ma non ci sarà giustizia finché non saranno tutti nelle patrie galere».

Perché se la presero proprio con suo padre?

«Mio papà, che era un macellaio, aveva reagito ad una rapina, il 16 dicembre 1978, colpendo a morte il bandito. I Pac, nella loro ideologia confusa e velleitaria, decisero di vendicarlo. Un copione ripetuto due volte lo stesso giorno: qui, fra Padova e Venezia, e a Milano dove fu ammazzato l'orefice Pierluigi Torregiani che pure aveva avuto la colpa di reagire e fare fuoco contro un malfattore in un ristorante».

Cosa ricorda di quei giorni?

«Il clima di terrore. Papà andava in negozio, ma aveva paura. Io avevo diciassette anni ma è come se tutto fosse successo ieri pomeriggio. Il 24 dicembre una bomba squarciò la macelleria e il 31 fummo raggiunti da telefonate anonime che annunciavano la nostra morte».

Lino non prese alcuna precauzione?

«Che poteva fare? La pistola era stata sequestrata dalla magistratura, così il 16 febbraio alle 1630 lo uccisero senza pietà. Dietro il bancone della macelleria. Prima di andarsene, Giacomin e Battisti si accertarono che fosse morto. Mia mamma, presente, lo prese fra le braccia ma papa non c'era più, c'era solo sangue, sangue, sangue dappertutto. Il sangue che vidi arrivando dopo pochi secondi».

La macelleria oggi è ancora aperta. Come avete fatto a resistere?

«Finito il funerale, io e la mamma andammo in bicicletta a tirare su la saracinesca, anche se avevamo paura e gli autori dell'attentato non sono mai stati individuati. Però siamo ancora qua, tutti e due a lavorare».

Adesso?

«Mio figlio Cristiano, quattordicenne, suona il trombone nella banda del nostro paese. Ho portato la formazione, l'Orchestra di fiati del Veneto naturalmente nella sua versione juniores, dal presidente Mattarella, ora mi piacerebbe aprire una casa della musica. Qualcosa che rimanga, che dia allegria, che restituisca la vita che ci è stata tolta».

Appena ha saputo quel che era accaduto in Francia, cosa ha pensato?

«No, non ho pensato, ma mi sono sentito con Maurizio Campagna, il fratello di Andrea, l'agente della Digos ucciso a Milano, alla Barona, il quarto massacro di quei fanatici dei Pac che l'avevano definito torturatore di proletari. Siamo diventati amici: ci siamo conosciuti fra un processo e un'evasione, ma il nostro rapporto è andato oltre i lutti e le sciagure. Ci siamo rincuorati a vicenda.

Mi creda, non è facile fare i conti con una tragedia che alimenta ancora la cronaca e irrompe nelle nostre esistenze a distanza di quarantadue anni».

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