Ritorna l'acciaio di Stato. Costa 100 milioni al mese

Per l'ex Ilva società al 50% con Mittal. Oltre alla Cig ci accolliamo le perdite ormai enormi

Ritorna l'acciaio di Stato. Costa 100 milioni al mese

Non è un ritorno alle partecipazioni statali, si affannano a giurare dal governo. E forse è vero: è qualcosa di più magmatico e indeterminato. Dietro l'industria di Stato c'era un progetto chiaro che con il tempo ha rivelato i suoi limiti. L'intesa che a 25 anni dall'Italsider fa rinascere l'acciaio di Stato invece è un enorme punto interrogativo.

L'accordo di cui era attesa la sigla ieri notte è maturato all'ombra di una trattativa tra il governo, l'onnipresente Invitalia di Domenico Arcuri e i vertici di Arcelor Mittal. La prima certezza è che per il colosso franco-indiano dell'acciaio è una via d'uscita comoda alla palude di Taranto, tra revoca dello scudo penale e crisi dei mercati. Quando Mittal ha cominciato a minacciare licenziamenti, il governo è entrato in fibrillazione e agitando proclami di guerre giudiziarie ha in realtà garantito ai franco-indiani taglio dei costi, dimezzamento della penale per rottura del contratto di affitto dello stabilimento e l'ingresso dello Stato in società alla pari, accollandosi metà della perdita monstre: 100 milioni di euro al mese. Dopo Alitalia un altro buco nero mangiasoldi a carico delle casse pubbliche. Con la differenza che Ilva non era un'azienda decotta prima di essere scarnificata dalla guerra populistico-giudiziaria combattuta a Taranto. Ieri, con una coincidenza ad alto valore simbolico, è arrivata la seconda assoluzione, in appello, per le accuse di bancarotta a Fabio Riva, erede del gruppo che aveva rilevato l'ex Ilva dallo Stato.

La seconda certezza è che la nuova gestione a Taranto viene accolta con i fucili puntati, un isolamento che dura da 8 anni e che ha contribuito al declino dell'ex Ilva. Da una parte ci sono i sindacati estromessi dalla trattativa che stanno alla finestra premendo permantenere i 10.700 posti di lavoro oggi in buona parte sostituiti dalla cassa integrazione. C'è poi l'indotto stremato dalla trattativa infinita e dalla gestione dei franco-indiani: le associazioni dell'autotrasporto da ieri sono in stato di agitazione e hanno fatto sapere al governo che se non paga gli arretrati i camion che muovono le merci necessarie alla fabbrica si fermano.

Dall'altra parte c'è il fronte che vorrebbe rimpicciolire l'azienda, quello titillato soprattutto dal M5s ma anche dal Pd di Michele Emiliano. La firma dell'intesa è stata accolta con la simbolica riconsegna della fascia tricolore da parte del sindaco Rinaldo Melucci, punta di lancia dello schieramento trasversale di forze locali che dietro lo slogan della riconversione ecologica mirano a ridurre l'impianto a officina per un prodotto prelavorato altrove. L'azienda si ritaglierebbe così un ruolo insignificante nel mercato e in breve vedrebbe svanire metà dei posti di lavoro.

Ma anche la soluzione scelta dal governo è densa di incognite. Per Mittal, che si è sostanzialmente sfilata, l'acciaieria rappresenterà sempre più una possibile rivale per i suoi altri stabilimenti europei ma, almeno fino al 2022, quando lo Stato, con un nuovo aumento di capitale da 800 milioni dopo il primo da 400, salirà al 60% delle quote. Fino ad allora, le quote saranno alla pari, imbrigliando il gruppo in una gestione paritaria che per una società è foriera di potenziale paralisi decisionale.

Fondamentale ora vedere come sarà composto il cda: se troveranno spazio le forze che mirano a spegnere definitivamente Afo 5, l'altoforno che è il cuore della rinascita della fabbrica, meglio prepararsi a una nuova Bagnoli.

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