Un atto di accusa spietato contro il «Sistema Giustizia», ma anche una autocritica esplicita: per non avere colpito con durezza, quando poteva farlo, i difetti strutturali della magistratura italiana. E per avere anzi permesso che al vertice del Sistema salissero, con la sua benedizione, personaggi inadeguati come gli ultimi vicepresidenti del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini e David Ermini.
È una lettura urticante, quella delle ventitré pagine che Matteo Renzi dedica alla giustizia nel suo libro Controcorrente, in uscita questa settimana. Sono pagine gravate dall'esperienza diretta vissuta dal leader di Italia viva quando il tiro delle Procure ha messo nel mirino la sua famiglia, con l'arresto di sua padre e sua madre, e - si scopre ora - lo ha colpito anche direttamente con atti formali. «Quando sono arrivato in Senato dopo l'arresto dei miei genitori - scrive l'ex premier - ho visto i grillini farmi il gesto delle manette (...) certe persone non sanno che cosa è la civiltà, vivono nella barbarie della loro violenza mentale, seminano odio». E racconta che a maggio, quando arriva la festa della mamma, vorrebbe pubblicare una vecchia foto lui con sua madre: «Ma so che grillini e haters andranno all'attacco di mia mamma con parole vergognose e epiteti irriferibili». Renzi non ha dubbi che si sia colpita la sua famiglia per colpire lui: «se non fosse stata la mia mamma avrebbe vissuto gli ultimi anni della sua vita come i primi sessantacinque: senza un solo problema con la giustizia».
Nella deriva forcaiola vissuta dal Paese nella «guerra dei trent'anni» iniziata con Mani Pulite, Renzi attribuisce un ruolo importante anche a Giuseppe Conte: raccontando di aver cercato invano di convertirlo alla battaglia garantista, ricevendo in campo la risposta che «garantismo e giustizialismo per me pari sono». «Dover spiegare la differenza a un professore di giurisprudenza divenuto presidente del Consiglio la dice lunga sullo stato della politica italiana ma pone seri dubbi anche sulla selezione dei docenti universitari».
Ce n'è per tutti: per Davigo, per «i politici privi di spina dorsale e incapaci di lottare per la propria autonomia», per i giornali trasformati in megafono delle Procure, pronti però a indignarsi quando sono i cronisti a venire intercettati: «come si giustifica la reazione sdegnata della categoria quando la stessa categoria ha pubblicato per anni di tutto?».
«Credo in alcuni giudici ma non credo nel sistema della giustizia fin quando non sarà profondamente cambiato», scrive Renzi. Lui però al potere c'è stato. «All'inizio - spiega - pensavo che quello della giustizia fosse un tema dal quale tenersi alla larga», confessa. «Ma ho fatto anche un errore più grande. Quando ho avuto la responsabilità di scegliere i nomi, sulla giustizia ho sbagliato». Gli errori che Renzi ammette portano i nomi di Legnini e Ermini. «Ho sempre delegato molto in questo settore», premette, anche se alla fine si assume «la mia quota parte di responsabilità». La scelta di Legnini dice, fu presa in una riunione a Palazzo Chigi, «i sostenitori erano il capogruppo Speranza e il ministro Orlando». Risultato: «per anni egli ha influito su tutte le decisioni del Csm in piena sintonia con quello che oggi viene definito il sistema Palamara»: non solo le nomine, ma persino la scelta della Popolare di Bari come banca del Csm. «Legnini ha concorso a decidere ogni singola nomina in tutta Italia attraverso il meccanismo delle lottizzazioni delle correnti (...) tutta la Roma dei palazzi sa che non passava una settimana senza che vi fosse qualche cena romana cui partecipava Legnini».
Le cene non erano illecite, il guaio è quando ne uscivano nomi non all'altezza: come quella in cui Palamara, Ferri e Lotti designarono a successore di Legnini come vicepresidente David Ermini. Renzi confessa di essere il responsabile fin dagli inizi della carriera politica di Ermini, «ma quel ruolo era troppo grande per lui». Gli altri candidati, Massimo Luciani e Alessio Lanzi, erano palesemente più titolati. «Quando mi fu chiesto un parere, conoscendo molto bene la mancanza di coraggio di Ermini, suggerii prudenza». Ma alla fine «l'accordo tra i politici e le correnti porta il nome di Ermini.
Il quale, quando esplode lo scandalo, finge di dimenticare che le cene con i suoi grandi elettori, che pubblicamente deplorava, erano le stesse che gli avevano permesso di sedere sulla poltrona dalla quale pontificava». Ho sempre pensato, conclude Renzi, «male non fare, paura non avere. Ma non è così. E ho pagato un prezzo altissimo per questo».
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