Nel famoso film Blade Runner i robot erano uomini indistruttibili mandati nelle colonie extramondo a fare i lavori che gli umani trovavano troppo difficili e pericolosi. Si ribellarono e tornarono sulla Terra perché volevano più vita (erano lavoratori co.co.co, in pratica), ed erano migliori perché avevano visto cose che...
Il racconto di Philip K. Dick da cui è tratto il film si chiama in realtà Gli androidi sognano le pecore elettriche? E il titolo spiega esattamente pericolo che si corre ad antropomorfizzare le macchine finendo poi per robotizzare gli uomini. Perché questo è il punto. La notizia che - secondo una ricerca del Censis-Eudaimon - sette milioni di lavoratori italiani hanno paura di perdere il proprio posto di lavoro a causa dell'arrivo delle nuove tecnologie non deve dunque sorprendere. Così come il 70% di chi lavora e il 74% degli operai temono la riduzione di redditi e tutele sociali. La colpa, si dice, è delle nuove tecnologie: i robot e l'intelligenza artificiale. In realtà, appunto, ci vorrebbe qualcuno che spiegasse che non è così.
Esistono dati e studi che viaggiano in senso contrario rispetto all'autostrada dell'allarme permanente effettivo. Per esempio: gli economisti Gregory, Salomons e Zierahn hanno studiato qualche anno fa i movimenti del mercato del lavoro in Europa per capire l'impatto tecnologico sull'occupazione. Il risultato è che tra il 1999 e il 2010 sono stati 1,64 milioni i posti di lavoro sostituiti da un macchina o da un algoritmo, ma allo stesso tempo sono stati creati altri 1,4 milioni di posti per via dell'aumento della produttività. In pratica: a quel punto il differenziale era quasi pari, ma aggiungendo i 2 milioni di lavori nati in settori prima sconosciuti, i conti segnavano un aumento totale di 1,8 milioni di impiegati. Una moltiplicazione di occupazione che nel secondo decennio del secolo è stata esponenziale.
Dunque: i robot uccideranno il lavoro dell'uomo? Assolutamente no, anzi. Quello che una macchina (senza volto, tra l'altro) distrugge, ricrea in maniera più potente: si chiama trasformazione. Ma siccome il cambiamento tecnologico ha fatto in pochi anni quello che la rivoluzione industriale ha concluso in un centinaio, servirebbe il manuale di guida sicura. Francesco Seghezzi, presidente di Fondazione Adapt (fondata nel 2000 da Marco Biagi), in un recente convegno organizzato da Etass e Fast sull'argomento, ha chiarito: «L'assunto sbagliato è che innovazione e automazione diminuiscano i posti di lavoro. Quello di cui c'è bisogno è riposizionare e riqualificare i lavoratori. Dando alla fascia media del mercato, che soffre maggiormente, la possibilità di alzare il livello di conoscenza».
Lo scenario vero, infatti, è che l'automazione crea un effetto vuoto al centro: i robot sono antieconomici per fare i lavori di spessore più basso e non hanno la conoscenza sufficiente per quelli dove serve l'iper specializzazione. Non hanno intuito, sentimento, capacità di adattarsi alle emergenze. Il ceto medio del mercato però tutto questo non lo sa, e ha paura: Censis e Eudaimon lo certificano. L'antidoto sarebbe far crescere nuove competenze per comandare le macchine e creare benessere (e il privato lo fa).
Ed anche avere leggi che in Italia liberino definitivamente il progresso e le aziende da inefficienza, immobilismo e illogica burocrazia. Ecco: in quel caso, in effetti, un automa in carne ed ossa sarebbe ben accetto. Perché un robot-presidente purtroppo nessuno l'ha ancora inventato.
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