Rosso Malpelo

La Rivoluzione di Praga e il tabù delle verità

La Rivoluzione di Praga e il tabù delle verità

Ieri è stato il cinquantesimo anniversario dell'inizio della Primavera di Praga quando un comunista cattivo, Novotny, fu sostituito da un comunista buono, Dubcek: talmente buono da provocare l'invasione dell'armata sovietica accompagnata dai carri armati della Germania comunista.

Nel 1990 i sovietici finalmente levarono le tende e io vissi quella transizione per due mesi a Praga. Ero stato mandato da Eugenio Scalfari per raccontare la felicità di un popolo liberato, ma trovai invece una depressione mentale globale e una paura paralizzante. Il lascito del comunismo era la mediocrità, la diffidenza di tutti verso tutti, ospedali senza attrezzature, un terrore del mondo che ricordava quello degli uomini vissuti nel buio raccontato da Platone.

Fu l'ultimo mio reportage per Repubblica e il mondo radical chic italiano non mancò di farmi sentire l'alito del suo rancoroso disprezzo perché avevo raccontato l'esito della loro utopia triste, applicata a un popolo civile: paralisi, delazione, paura. Oggi, boemi e slovacchi hanno riacquistato in pieno la loro identità e le tradizionali eccellenze tecnologiche, ma ci sono voluti più di dieci anni di convalescenza per tornare alla vita. Raccontare questo risultato finale di qualsiasi politica comunista era vietato allora come oggi perché quella politica porta lo stesso marchio genetico.

Persino nel Pd renziano, così bancario e spensierato, chi vuole ragionare in proprio è costretto a fare le valigie e scegliere la libertà.

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