Gli antichi l'avrebbero chiamata «ibris» ovvero tracotanza. Gli inglesi potrebbero parlare di «wishful thinking», noi italiani di «pio desiderio». Indipendentemente dalle definizioni, le vicende del nostro Matteo Salvini e del premier inglese Boris Johnson sembrano le storie parallele di due leader vittime della stessa, singolare suggestione sovranista. Una suggestione che li ha spinti a illudersi di poter usare un'effimera e transitoria popolarità per superare i rigidi steccati imposti da due sistemi costituzionali diversissimi, ma basati sullo stesso principio cardine, ovvero quello della sovranità del Parlamento. A farli cadere in questo errore banale, ma anche basilare, può aver contribuito uno Steve Bannon che seppur non intervenendo direttamente nelle azioni e negli atti di Salvini e Johnson ha contribuito a plasmare la loro idea di potere. Ma le idee di Bannon derivano da un sistema costituzionale americano dove il vero e unico sovrano, delegato dal popolo con un'investitura diretta, è il presidente. Nel Regno Unito, come in Italia, il voto popolare viene, invece, mediato dai rappresentanti parlamentari. Questa fondamentale differenza tra la democrazia americana ed europea è probabilmente anche all'origine del fallimento della strategia di Bannon e dei suoi alleati nel percorso verso le elezioni europee. Elezioni che ancor più di quelle dei singoli stati finiscono con il dar vita ad un sistema di maggioranze e di potere reale indipendente dai voti delle singole formazioni e dei loro leader. Ma lasciando da parte Bannon, il raffronto più efficace è sicuramente quello tra il nostro ex ministro degli Interni e l'attuale premier inglese. Matteo Salvini arriva alla decisione di aprire la crisi nel mezzo di un'estate segnata da un'abbuffata di consensi che, stando ai sondaggi, lo porta al 37 per cento e viene plasticamente suggellata dalle spensierate giornate del Papeete Beach di Milano Marittima. Il vizietto sovranista di confondere popolarità e potere effettivo si era, in verità, già manifestato con l'illusione di controllare i flussi migratori a colpi di decreti. Decreti sistematicamente vanificati dalla magistratura nell'ambito di quella dinamica istituzionale che in Italia rende impossibile l'esercizio di un'azione di governo priva di compromessi. L'errore fondamentale è, però, l'illusione di poter usare i sondaggi per influenzare anche il presidente della Repubblica, ovvero la figura a cui la Costituzione assegna il compito di grande manovratore istituzionale. La parabola di Boris Johnson non è molto diversa. Tra luglio e agosto i rilevamenti e la stampa lo celebrano come il più popolare dei leader conservatori. Proprio sull'ala di quella popolarità il premier annuncia l'intenzione di chiudere il Parlamento, andare a elezioni anticipate e ottenere l'uscita, a tutti i costi, dall'Europa entro il 31 ottobre. Il gioco di Johnson è, se vogliamo, più sottile in quanto basato non solo su consensi e sondaggi, ma anche su quel referendum della Brexit che rappresenta uno specchio insindacabile della volontà popolare. Alla fine però il miraggio sovranista spinge anche lui a ignorare l'istituzione fondamentale attorno a cui ruota la democrazia inglese.
Tentando di chiudere Westminster e pretendendo di ottenere elezioni anticipate indipendentemente dalla maggioranza posseduta alla Camera, Johnson è entrato in conflitto con l'unico autentico sovrano. Un «sovrano» chiamato Parlamento a cui da secoli spetta il diritto di far fuori non solo re e regine, ma anche semplici primi ministri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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