Era un Matteo Salvini visibilmente nervoso, quello che ieri si è si è presentato al Senato, scortato dal ministro (ma anche avvocato penalista) Giulia Buongiorno in Senato. «Per parlare di donne, non di Di Maio», taglia corto coi cronisti che lo assediano sul caos Tav. Il tono è brusco, il sorriso assai tirato.
E non è tanto lo scontro sulla Tav a metterlo in allarme: alla Lega basta non fare nulla perché lunedì partano i bandi per l'opera, e poi si vedrà. Per questo il ministro dell'Interno ha fatto sapere che non sarebbe andato al vertice serale che Conte e Di Maio volevano convocare, e se ne è partito per Milano.
Oltretutto, dalla partita Tav Salvini sa di poter trarre un grosso beneficio: è collocato dalla parte giusta della barricata, e sul tema - dopo la tremebonda giravolta del premier Conte - è diventato l'unico interlocutore affidabile per i governi europei e per la Commissione, il garante degli accordi internazionali, persino - paradossalmente - l'argine al populismo del no grillino. Insomma, la vicenda gli può far guadagnare parecchi punti a Bruxelles, come a Parigi e Berlino, e socchiudergli le porte di quei salotti europei cui spera di avere accesso, ma dai quali era finora bandito.
A spaventare il leader del Carroccio è però il fall-out velenoso che lo scontro violento con i grillini può provocare. Innanzitutto quello che lo riguarda personalmente: il prossimo 20 marzo il Senato deve votare sul caso Diciotti, e decidere se autorizzare il processo nei suoi confronti, o respingerlo. Serve la maggioranza assoluta, e dunque servono i voti M5s per evitare al ministro quella che - come gli hanno spiegato i suoi avvocati - sarebbe una brutta rogna dagli esiti molto incerti. I voti gli erano stati garantiti da Di Maio in persona, nel quadro di una serie di do ut des, con Salvini che fin qui ha mantenuto i patti e dato via libera a tutte le priorità del Movimento cinque stelle.
Ma ora che su Tav si è arrivati al momento della verità, e allo scontro finale, chi può più garantirgli alcunché? Ai tempi, Di Maio gli aveva anche assicurato che sulla Tav un compromesso si poteva trovare. Poi però si è accorto che il partito gli saltava per aria, che in molti nelle file grilline non vedono l'ora di approfittare di un cedimento sulla Tav per levarsi dalle scatole lui e la sua leadership decisa dalla Casaleggio, e ora è costretto alla battaglia. Così ieri Di Maio ha ripetuto in pubblico gli avvertimenti che aveva già lanciato a Salvini, in privato, durante il lungo vertice notturno di mercoledì: «Se perdo questa partita, in Senato viene giù tutto», gli aveva detto. Tutto, Salvini compreso, era il sottinteso. «Non siamo gente che fa mercimoni - ha detto ieri in conferenza stampa il vicepremier grillino - ma sono molto preoccupato che non vadano in porto i provvedimenti che avevamo deciso. Se il governo è a rischio, è chiaro che poi le cose non passano in Parlamento». Sottinteso chiarissimo, e a Salvini son fischiate le orecchie. Il voto sul caso Diciotti è stato il trauma più doloroso per i grillini, finora. Se si allenta il vincolo di maggioranza, voteranno ben volentieri per consegnarlo ai giudici e rifarsi una verginità.
Per questo, mentre Salvini da Milano twitta tramonti da cartolina accompagnati da poesie funeree
(«Ed è subito sera» di Salvatore Quasimodo, una lirica evocazione della mortalità dell'uomo e dei suoi governi) a Roma i suoi si affannano per trovare il compromesso che salvi la faccia a Gigino. Almeno fino al 20 marzo.
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