La Banca di Russia assomiglia a quei tipi che pretendono di fermare col dito l'acqua che tracima dalla diga. Dopo il divieto ai broker di vendere titoli per conto di non residenti, arriva la strizzata violenta ai tassi, alzati ieri dal 9,5% al 20%. Una mossa tafazziana: non impedirà al rublo di proseguire nella picchiata (-21% sul dollaro l'ultimo score) e non indurrà i risparmiatori russi a smetterla di incolonnarsi davanti ai bancomat per salvare il salvabile, tramutando ciò che è potenzialmente carta straccia in dollari, euro e sterline. Soprattutto, sarà un boomerang tremendo per l'economia sotto forma di maggiore inflazione e crescita azzoppata.
«Le sanzioni sono pesanti», ha ammesso il portavoce di Vladimir Putin. Più aumentano (ieri l'America ha fatto terra bruciata proprio attorno all'istituto centrale russo e al suo fondo sovrano) più il cappio si stringe. Putin è convinto di poter resistere facendo leva sui 450 miliardi di dollari di riserve valutarie, che rischiano però di essere semplici sacchi di sabbia messi alle finestre poiché il 50% delle scorte in dollari ed euro custodito nei Paesi nel G7 è già stato congelato. La conta dei danni è fin d'ora pesantissima, malgrado non si possa ancora valutare l'impatto dell'esclusione delle maggiori banche russe dallo Swift, il sistema di messaggistica interbancario. Ma, in prospettiva, ciò che si va profilando non promette nulla di buono per il Cremlino se perfino un Paese come la Svizzera ha rotto il tabù della neutralità per adottare il pugno di ferro nei confronti di Putin, degli oligarchi e del mondo del credito russo di stanza nella Confederazione.
Poi, ci sono i danni collaterali, quelli che si accumulano lontano dai confini domestici. La decisione di mettere ieri il lucchetto alla Borsa di Mosca, una misura da ultima spiaggia dopo le ripetute débâcle della scorsa settimana, non ha impedito a Londra il lunedì nero dei depositary receipt (i certificati che rappresentano le azioni di una società estera) di alcuni titoli russi. Sprofondo rosso per i colossi dell'energia Gazprom, Lukoil e Rosneft, affossati rispettivamente del 37%, 53,7% e 29,7%, e crollo del colosso della grande distribuzione Magnit (-64%). Ma la picchiata più vistosa (-68%) è stata quella di Sberbank, la principale banca russa colpita dalle misure punitive e ormai in odore di default. La Bce parla apertamente di «fallimento e probabile fallimento» della filiale europea dell'istituto dopo che le sanzioni e i prelievi ne hanno di fatto prosciugato la liquidità.
Certo, non è solo la Russia a soffrire. Le Borse europee restano preda di una volatilità da ottovolante impazzito anche a causa del grosso punto interrogativo che riguarda i colloqui in Bielorussia, con lo Stoxx600 capace di limitare allo 0,15% il calo dopo un -2% durante la seduta e con Milano che ha ridotto le perdite da -3 a 1,4%. Recuperi aiutati anche da Wall Street (-0,7% a un'ora dalla chiusura), mentre il petrolio Brent è tornato a scavalcare i 100 dollari il barile e i prezzi del gas sono balzati ad Amsterdam del 35,7% a 126 euro al megawattora. L'euro, inoltre, continua a soffrire lo spostamento verso il dollaro (a quota 1,12). Gli analisti tengono però d'occhio soprattutto l'andamento dei credit default swap, gli ombrelli contro il rischio di bancarotta. Quelli russi a cinque anni sono balzati a quota 412, mettendo a segno un aumento del 72% in una settimana. Il dato indica una probabilità implicita di default di appena il 6,87%, su un tasso di recupero ipotizzato del 40%, ma nessuno ha dimenticato il crac del 1998 provocato dalla crisi del rublo. A finire a gambe all'aria fu un colosso come l'hedge fund Long-Term Capital Management e si sfiorò la crisi finanziaria globale.
Adesso, arrivano segnali preoccupanti da JP Morgan, che non accetterà più ordini di vendita o di acquisto del suo fondo Emerging Europe Equity. Oggi come allora, è meglio che le banche centrali tengano gli occhi ben aperti.
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