Scacco ai postini del boss che smistavano i «pizzini»

Il latitante aveva scelto un luogo solitario per impartire gli ordini restando al sicuro. Nelle masserie il centro di raccolta dei biglietti

RomaAveva scelto per roccaforte un luogo solitario dove comunicare le decisioni restando «al sicuro». Il superlatitante Matteo Messina Denaro parlava ai fedelissimi attraverso pizzini che, fatti piccoli piccoli, venivano posizionati sotto le pietre. Il centro di smistamento di questi pizzini erano due masserie immerse nelle campagne di Mazzara del Vallo e Campobello di Mazzara, di proprietà di due allevatori: Vito Gondola, 77 anni, storico capomafia, e Michele Terranova, 45 anni, fedelissimi del latitante più ricercato di tutti i tempi, arrestati con altri nove.

Sono esponenti di vertice delle famiglie di Cosa Nostra trapanese e presunti fiancheggiatori di Messina Denaro. Gondola e Terranova, con Michele Gucciardi, 61 anni, Giovanni Scimonelli, 48 anni, Pietro e Vincenzo Guambalvo, padre e figlio, di 77 e 38 anni, e ancora il 46enne Sergio Giglio, il 73enne Ugo Di Leonardo, sono indagati per associazione mafiosa, il 49enne Giovanni Mattarella, il 27enne Leonardo Agueci e Giovanni Loretta, 42 anni, sono accusati di favoreggiamento aggravato dalla modalità mafiosa, per aver agevolato la latitanza del boss mafioso. Ieri notte il blitz delle Mobili di Palermo e Trapani, con il coordinamento dello Sco, e il Ros. L'operazione «Ermes», coordinata dalla procura distrettuale antimafia di Palermo, ha colpito il cuore del sistema di comunicazione di Messina Denaro. Gli investigatori hanno filmato tutti i movimenti. Era al termine dei summit tra i capi, che i «collettori» prendevano i pizzini per consegnarli ai destinatari. Dovevano distruggerli dopo averli letti e rispondere entro 15 giorni. «Concime» e «favino» erano le parole d'ordine per la convocazione dei summit. Ma i mafiosi parlavano anche di formaggi per chiedere di incontrarsi. «Ti ho messo la ricotta da parte. Passi più tardi?», «Il formaggio è pronto da ritirare». Gli incontri non avvenivano mai nelle masserie ma sempre nelle campagne, rendendo più difficili le intercettazioni.

Si stringe il cerchio attorno a Messina Denaro, che - gli investigatori ne sono certi - trascorre del tempo fuori dall'Italia. Ecco spiegato un periodo di «silenzio» da parte del boss registrato dagli inquirenti. «Non sta sempre nel trapanese, si sposta dalla Sicilia e dall'Italia - spiega il procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato - quando sente stringersi attorno a lui il cerchio taglia i contatti con i fedelissimi finiti sotto indagine». È un duro colpo per l'ultimo dei padrini ancora sfuggente, che ha perso una rosa ristretta di nomi su cui contare. Ha bisogno dei fedelissimi perché «i cristiani squagghiano senza manco riri nenti» - dice Gondola intercettato, intendendo dire che le persone, in particolare i giovani, spariscono senza dire nulla.

Soltanto un mese fa la Dia di Trapani ha eseguito un'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari per il cognato del capomafia, Gaspare Como, che aveva avviato e gestito occultamente due esercizi commerciali a Castelvetrano e a Marsala attribuendone, in maniera fittizia, la titolarità a prestanome. Da qui sembra emergere come la strategia degli investigatori sia quella di tagliare da un lato il circuito di fedelissimi che consentono al boss di restare al posto di comando ma ben protetto, e dall'altro quello dei prestanome che foraggiano i suoi affari.

«Messina Denaro è una sorta di parassita che non tiene conto dei legami familiari - ha

detto la Principato - ma usufruisce dei soldi che i componenti della famiglia e del clan possono fargli avere». Il magistrato ha coordinato l'indagine con il procuratore Franco Lo Voi e i pm Paolo Guido e Carlo Marzella.

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