È il solito Stefano Fassina a sganciare l'arma-fine-di-mondo contro Matteo Renzi: «Non è un segreto che fosse lui a capeggiare i 101» che due anni fa affossarono Prodi sulla via del Colle.
Un'accusa pesantissima nel mondo Pd, dove quasi nessuno - sotto sotto - ama Prodi e dove pochi lo volevano davvero presidente della Repubblica (i 101 franchi tiratori democrat furono ben di più, come lo stesso Prodi ha più volte ammesso, perché all'ex premier arrivarono parecchi voti grillini), ma dove l'accusa di aver affossato il «fondatore dell'Ulivo» e con lui la segreteria Bersani equivale a un peccato mortale.
Il fatto che un esponente del Pd - ancorché nemico acerrimo di Renzi - accusi il proprio segretario e premier di un simile misfatto fa capire che tra un pezzo della vecchia Ditta post-comunista e il nuovo leader estraneo a quella storia è in atto una guerra di religione, che ormai trascende la politica e si è trasformata in un conflitto antropologico. Non è un caso che a dare manforte a Fassina buttando ulteriore fango nel ventilatore arrivi Rosy Bindi, altra odiatrice professionista del premier, che descrive un Renzi «seduto sulle ginocchia di Berlusconi al Nazareno». Roba che sarebbe normale sulle labbra di un grillino alla Di Battista, ma che detta da una vecchia dirigente del Pd fa rizzare i capelli in testa. E non è da meno il lettiano Francesco Boccia, che accusa Renzi di usare «metodi da Isis». Mentre gruppetti di oltranzisti annunciano che non voteranno l'Italicum al Senato e alla Camera escono dall'Aula (compreso Bersani) per non votare la riforma del Senato.
Il clima nel Pd, alla vigilia della partita per il Colle, è dunque da guerra civile. «Un partito alla frutta», tuona la senatrice civatiana Ricchiuti in Aula. Ma paradossalmente gli ultrà anti-Renzi «rafforzano il premier spaccando la minoranza e mettono in difficoltà noi che vorremmo condizionarne le mosse», ammette un esponente della minoranza bersaniana. Che spiega: «Il problema è che alcuni dei nostri dirigenti, compresi D'Alema e Bersani, sono condizionati dal rancore personale per Renzi, che li ha messi all'angolo e gli ha tolto il controllo della Ditta. Si sentono spodestati e truffati, e gliel'hanno giurata. Poi ci sono quelli che, come Fassina o Civati o D'Attorre, sono drogati da visibilità: sanno che sparando su Renzi finiscono ogni giorno in tv e non possono farne a meno». Di qui a dire che la minoranza Pd ha una linea unitaria e la capacità di influire sulle scelte politiche ce ne corre, aggiunge: «Se vuoi fare la guerra devi almeno saper sparare: invece gli ultrà anti-Renzi perdono sia sull'Italicum che sulle altre riforme, fanno male solo a se stessi e costringono tutti noi dissidenti moderati a ricompattarci su Renzi». La minoranza perde pezzi: «Altro che 140, ieri non arrivavamo neanche a 100», ammette Corradino Mineo a proposito dell'assemblea bersaniana di mercoledì. La «massa di manovra» sul Quirinale («Ne controlliamo almeno 180», giurava il bersaniano Zoggia) è divisa in mille rivoli e farla convergere su un solo candidato è impresa improba. Intanto su Fassina si scatena l'ira dei renziani e lo stesso Bersani è costretto ad intervenire per smorzare: «È una sua opinione, con il voto segreto si possono fare ipotesi che poi vengono smentite».
Del resto, a definire «una sciocchezza colossale» o «un'accusa insensata» le parole di Fassina sono diversi esponenti della sinistra Pd: Renzi all'epoca controllava poche decine di voti in Parlamento, come ricorda anche la prodianissima Sandra Zampa: «Non credo che abbia dato ai suoi indicazioni di non votare Prodi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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