La supercazzola à la Tognazzi ha fatto scuola. Sentite l'Istat: «Nel secondo trimestre del 2016 il prodotto interno lordo (Pil), espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2010, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente». Un contorsionismo lessicale risolvibile con una frase sola: Italia, crescita zero. Più diretta, ma anche più urticante per chi sta a Palazzo Chigi. Insomma: passano gli anni, si alternano i governi (rigorosamente non eletti), e il Paese continua a trascinarsi col solito passo dolente, da requiem.
Ma anche se il motore è fermo come una vecchia Trabant, era già tutto previsto, non c'è di che allarmarsi. Colpa della Brexit, colpa del terrorismo, colpa dei migranti, ci informa sollecito il ministero dell'Economia. Colpa, come sempre, degli altri. Poi vai a vedere i dati Eurostat e scopri che l'Inghilterra si è espansa tra aprile e giugno dello 0,6% (ma come, e i danni da «Leave»?), mentre anche la Francia è rimasta al palo. Con una sottile differenza: loro, i terroristi ce li hanno in casa e il Jobs Act in salsa parigina ha generato talmente tanti incazzati da paralizzare il Paese per settimane. Adieu produttività, turisti e consumi. Della Germania (+0,4% nel trimestre, +3,1% su base annua) è quasi inutile parlare: gioca un altro campionato, e con regole discutibili (a cominciare dall'illegale ammontare di surplus).
Ma certo non è colpa di Berlino se riusciamo a mettere a segno un anemico +0,7% nei confronti del secondo trimestre 2015 e, soprattutto, un misero 0,6% di sviluppo acquisito per l'intero 2016. Una percentuale che suona come una condanna a morte per la stima di crescita dell'1,2% inserita in aprile nel Documento di economia e finanza e su cui il governo ha già messo una croce. In attesa di rendere nota, nell'aggiornamento al Def del prossimo 27 settembre, la previsione ritoccata al ribasso. Ciò rende un tantino problematica l'agenda di Matteo Renzi. Per esempio alla voce «pensioni», con risorse che verranno a mancare sia per alzare quelle minime, sia per quelle anticipate. A patto di non mettere in cantiere una manovra aggiuntiva - e miliardaria - che indebolirebbe ancor più il Paese.
D'altra parte, la coperta è corta. L'Istat non offre alcun dato disaggregato, ma si limita a rendere noto che se l'agricoltura e i servizi crescono, l'industria è in recessione. Un guaio. Anche perché i consumi languono, nonostante uno stato di deflazione ufficiale che evidentemente non tocca il carrello della spesa e gli altri beni di consumo. E per fortuna c'è l'apporto positivo dell'export, frutto del basso livello dei prezzi dell'energia e dell'azione di stimolo con cui la Bce ha contribuito alla svalutazione dell'euro. Due elementi positivi, ma di natura esterna, che danno ancor più la misura della mancanza di slancio interna. Un recente studio di Mediobanca spiegava che le aziende italiane stanno recuperando faticosamente i livelli di produttività perduti e mai più recuperati in seguito alla crisi del 2008. L'azione non è però sorretta da adeguati investimenti e sta avendo dei costi in termini di posti di lavoro bruciati. Servirebbe dunque un new deal mirato, capace di far da volano alla crescita. D'altra parte, Mario Draghi non è il mago Merlino.
All'ex governatore di Bankitalia dobbiamo la discesa ai minimi storici dei rendimenti sui nostri titoli di Stato, eppure il debito pubblico continua inesorabilmente a macinare record: 2.248,8 miliardi in giugno, con un aumento di 7 miliardi rispetto al mese precedente. Ma tranquilli: un paio di privatizzazioni e tutto si sistema.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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