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Se chiedere le dimissioni è il nuovo sport dei partiti deboli

È diventato un gioco di società. Nella maggioranza extra-large ogni partito si sceglie quotidianamente una testa da tagliare

Se chiedere le dimissioni è il nuovo sport dei partiti deboli

È diventato un gioco di società. Nella maggioranza extra-large ogni partito si sceglie quotidianamente una testa da tagliare. I giallorossi (Pd, grillini e Leu) vorrebbero utilizzare la ghigliottina per il leghista Claudio Durigon, a cui è venuta la stramba idea di reintitolare un parco di Latina al fratello del Duce, Arnaldo Mussolini. Luciana Lamorgese, ministro dell'Interno, la vorrebbe sul patibolo, invece, Matteo Salvini per aver trasformato i confini di questo Paese in un colabrodo. Non si contano le volte in cui qualcuno ha chiesto il licenziamento di Fabiana Dadone, voce nel governo del grillismo intransigente che transige sempre. Per non parlare del ministro della Sanità, Roberto Speranza, nell'occhio del ciclone in maniera permanente. O, ancora, di Bruno Tabacci, ennesimo episodio di politico inguaiato dalla prole.

Chiedere le dimissioni è diventato uno sport. Il bello è che viene praticato non tanto dagli uomini dell'opposizione della Meloni, il che sarebbe naturale, quanto dai leader della maggioranza di Draghi, il che appare paradossale. Uno sport facile, che non costa niente, visto che alla fine l'unico che si è dimesso è Renato Farina, ma dal ruolo ben più modesto di collaboratore del ministro Brunetta. La sua unica colpa per qualche giornale è quella di esistere.

Gli altri candidati al patibolo, invece, rischiano per modo di dire, perché quella spasmodica voglia di tagliare una testa segnala solo una condizione di impotenza: dato che Mario Draghi è intoccabile, che una crisi di governo sarebbe suicida, i leader di questa maggioranza forzata possono mettere nel mirino solo qualche malcapitato. È il risultato di questa strana situazione che li vede dentro il governo, ma fuori dalla stanza dei bottoni: così, privati del potere, debbono accontentarsi del suo surrogato, cioè dell'illusione di poter licenziare l'avversario che oggi, almeno formalmente, sono costretti ad avere come alleato.

All'impotenza dei partiti, corrisponde invece la forza del premier. E qui arriviamo all'altro corno del problema. Draghi in questo momento potrebbe tutto, potrebbe ridisegnare questo Paese. Invece, si deve districare tra i limiti, i tabù ideologici, gli errori, a volte gli orrori, programmatici dei suoi interlocutori. Tra una soluzione efficace e una mediana, cioè di compromesso tra i partiti, vira sulla seconda. È successo sulla giustizia, per cui il referendum è diventato l'unica soluzione. Sul green pass, per cui senza l'obbligo di legge siamo precipitati nella confusione più totale. Capiterà sul reddito di cittadinanza.

Così si rischia di perdere la grande occasione, perché prima che un altro premier abbia una congiuntura politica favorevole come quella di cui gode oggi Draghi ci vorranno cinquant'anni. Ecco perché il premier dovrebbe osare di più: tanto più che per lui andarsene sbattendo la porta di Palazzo Chigi sarebbe la via più facile per aprire poi il portone del Quirinale.

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