Il poeta inglese Thomas Eliot disse di aver misurato la sua vita a cucchiaini di caffè. Ma lui non abitava in Italia, e non avrebbe mai immaginato che circa due-tre grammi di polvere avrebbero dato il via a un nuovo mostro dell'ormai mitologico Fisco nostrano, ovvero il Caffettometro. Già: perché non bastava lo Spesometro o il Redditometro, ma anche dentro una semplice tazzina da bar arriva il naso dell'Agenzia delle Entrate per monitorare l'attività di ristorazione. E il senso è sempre lo stesso: tu, contribuente, hai sbagliato. Per carità: c'è chi sbaglia apposta. Ma per provarlo, dice una sentenza della Cassazione del 2018, «la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell'accertamento analitico-induttivo del reddito d'impresa... è consentito all'ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate...». Ecco, in questo caso secondo il Fisco per una tazzina di caffè ci vogliono 8 grammi precisi di polvere, considerato che 2-3 appunto cadono a colpa dello sfrido (chi era costui?). E il Caffettometro - vero mostro anche lessicale - non mente. Ancor più, poi, nel recentissimo caso di un bar di Lucca, il cui proprietario è stato accusato di aver omesso 122mila euro di incassi, adducendo il fatto che i suoi dipendenti si ristoravano tra un momento di lavoro e l'altro con più di un caffè a turno. Impossibile, no? Per fortuna questa volta è intervenuta la Commissione Tributaria locale dandogli ragione: «Non è fatto notorio - ha scritto - che nelle aziende sia consentita solo una pausa caffè. Il parametro adottato è privo della dignità logica».
E il risultato è che l'Agenzia delle Entrate è stata condannata a pagare 4mila euro di spese legali. Però, state certi, sarà per un'altra volta, perché certi mostri in Italia non si arrendono mai. Al limite fanno giusto una pausa. Caffè.
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