Se l'Europa è la scusa per tassarci di più

Non c'è nessuna imposta, tassa o accisa chiesta dall'Europa. La pressione fiscale cresce per l'insipienza dei governi

Se l'Europa è la scusa per tassarci di più

Non c'è nessuna imposta, tassa o accisa chiesta dall'Europa. Come stoltamente s'è preso a chiamare quel che arriva dalle istituzioni dell'Unione europea. La pressione fiscale cresce per l'insipienza dei governi, che hanno fatto diventare la spending review un genere letterario, anziché una sana pratica di rispetto per i soldi dei contribuenti.

Posto che le spese per il soccorso ai terremotati sono fuori dai conteggi relativi al patto di Stabilità, i nostri conti sforano, rispetto a quanto il governo stesso aveva garantito, di uno 0,8% in più di deficit. Ci chiedono di rientrare solo per un quarto, lo 0,2. Sono 3,4 miliardi. Nel corso del medesimo esercizio ne risparmieremo più di 8, grazie al fatto che la Bce tiene bassi i tassi d'interesse, quindi frena il costo del nostro spropositato debito pubblico. Solo inetti e vili possono continuare ad attribuire all'Ue la colpa delle manovre, nascondendo il minore costo del debito. Dovremmo approfittarne per abbatterlo (anche mediante dismissioni programmate), invece difendiamo gli sforamenti del deficit, che saranno poi aumenti del debito. Con questo approccio il governo Renzi s'è impegnato in una patetica polemica pro elasticità, poi dilapidata in regalie con cui ha propiziato sia la mancata crescita che la sconfitta referendaria. Un capolavoro.

Sento ripetere che la spesa pubblica è necessaria per uscire dalla crisi, sicché sarebbe folle diminuirla. A tale dottrina s'uniformava la renzieconomics, che poi sarebbe il vecchio assistenzialismo cattocomunista. Invece la spesa corrente genera miseria, perché in troppa parte indirizzata a finanziare attività che non solo non producono ricchezza, ma la intralciano. Se spendi soldi buoni per attività cattive ottieni la crescita delle rendite improduttive, salvo poi gonfiare deficit e debito che bruciano gettito fiscale. Certo che servirebbe una buona spesa pubblica: negli anni '60, nel manifatturiero, le grandi imprese (con più di 500 dipendenti) erano 700 e impiegavano il 28% degli occupati; oggi sono 471 e ne impiegano il 16,2%. In quella crescita l'investimento pubblico ebbe un ruolo decisivo, generando pochissimo debito, proprio perché produceva ricchezza. Ma se si vuole potere usare quello strumento a maggior ragione si deve tagliare la spesa corrente. Una cosa è investire nella formazione dei figli, altra sollazzarsi in bettola. Se fai crescere la seconda spesa aumenta solo l'ubriachezza molesta. Salvo poi frignare per le diverse velocità interne all'Ue.

Ma quando i conti non tornano, cosa fanno i governanti di turno? Anziché raccontare il perché si deve cambiare andazzo, piatiscono: ce lo chiede l'Europa. E vai con benzina e tabacchi. I conti non torneranno neanche poi, perché quello 0,2 è solo lo sforamento del deficit, restando all'orizzonte le clausole di salvaguardia (compreso aumento dell'Iva) da disinnescare. Questi sono i nostri problemi, che possono essere risolti virtuosamente, liberando l'Italia che corre e premiando il merito.

Il che, però, comporta una classe politica che non si rintroni d'onanismo elettorale (quando si vota? come si vota? ci scindiamo? ci uniamo?), e una classe dirigente, giornalismo compreso, che non s'industri da mane a sera per trovare qualcuno o qualche cosa sul cui conto mettere le colpe nostre.

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