Se l'ignoranza politica non è una virtù

Se l'ignoranza politica non è una virtù

Nostalgia di D'Alema. Nostalgia della politica politicante «la politique d'abord» come la chiamava il vecchio Pietro Nenni dopo l'esilio in Francia e delle parole misurate, calcolate, specie se antipatiche e sferzanti se messe a confronto con l'atteggiamento di quel tale Dibba che spaccia per virtù la propria ignoranza assoluta nell'amministrare la cosa pubblica come facevano gli anabattisti tedeschi, che mostravano come virtù le orride e i pidocchi. Non stiamo avventurandoci nell'arte smarrita dell'invettiva, ma ci limitiamo ad esprimere il grido di dolore di chi non ne può più della truffa ideologica populista secondo cui ignoranza e sudiciume (Roma, per fare un esempio) sono valori ideali. Massimo D'Alema, che come politico si era costruito uno stile sui parametri di un mondo oggi estinto, ha raccontato in una intervista a Vittorio Zincone su Sette di avere seguito una giusta strategia, ma di avere fallito nella tattica: «Considerando quello che è avvenuto dopo, oggi tendo ad essere indulgente con i miei errori. Almeno, e qui cito Paolo Conte, era un mondo adulto e si sbagliava da professionisti». Chi, come me, era cronista di quell'epoca, faceva parte di quel decorosissimo mondo finché non è iniziata l'era dell'Orrore non del Terrore - a partire dai girotondi contro il Parlamento. Oggi i Cinque Stelle - che con la Lega nello stesso sacco ci stanno portando alla catastrofe per incompetenza ed arroganza - si vantano di essere quel che sono, tant'è vero che il sopravvalutato Dibba ha confessato per modestia alla Gruber che il suo partito ha sbagliato «nella comunicazione». Quanto al resto, dieci e lode: i pentastellati, dice, erano troppo occupati a fare disastri, per accorgersi di quanto il mondo degli adulti fosse brutto e cattivo: «Nella vasca di squali della politica italiana, noi siamo brave persone che si sono chiuse nei ministeri». Giustamente la conduttrice, per una volta non intimidita, ha replicato «Ma se siete come Alice nel Paese delle meraviglie, non candidatevi a governare. Studiate, prima e poi, forse, andate al governo». Sante e inutili parole visto che gli italiani, chiusi nella bottiglia di una crisi globale, sono come mosche impazzite quando vanno alle urne. È su questo scenario che le parole di Massimo D'Alema giganteggiano: la politica è un mestiere per professionisti anche e specialmente quando costoro praticano l'antipolitica (vedi i casi diametralmente opposti di Mario Segni e Silvio Berlusconi). D'Alema è noto per il suo carattere poco accattivante, anzi scostante: quell'antipatia (che era considerata virtuosa in un Partito comunista forgiato dall'altero e terribile Palmiro Togliatti) non gli ha giovato, ma di sicuro anche l'antipatia apparteneva al mondo della politica reale, della selezione letale tra professionisti adulti.

Oggi la politica va in scena come avanspettacolo, un politico dice all'altro «vieni avanti, cretino» e poi fanno le pernacchie, si insultano e già che sono di strada prelevano dal bancomat depositi e prestiti i soldi degli altri.

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