Quando ieri un nostro collega è caduto nell'immancabile clichè machista di voler prendere le distanze dagli argomenti che profumano di cipria e parlando del pasticcio che Renée Zellweger ha combinato con la sua faccia ci ha chiesto «Renée chi?! Non so assolutamente chi sia...», la prima cosa che ci è venuta da rispondergli è stato «nemmeno lei».
L'ultimo red carpet dell'attrice texana si è trasformato in una moderna Via Crucis senza Risurrezione. La pelle tesa in procinto di squamarsi come cartone da imballaggio rimasto troppo al sole, gli occhi chiusi, il naso schiacciato, la fronte trasparente, gli zigomi così gonfi che si vedeva anche la marca della protesi, i connotati cambiati insomma, da qualche brutta botta presa però da «dentro».
«Tutto merito di una vita sana e del mio uomo (Doyle Bramhall II, ndr)». Ecco, in quel «merito» detto convinta a chi le chiedeva spiegazioni della sua metamorfosi, purtroppo c'è tutto. Tutto il suo disagio che si chiama «dispercezione» ed è una malattia.
Quando un'attrice si devasta di chirurgia plastica, la prima cosa a cui si pensa è che tutto si riduca a un'ansia da immagine, a una necessità professionale, alla non rassegnazione di vedersi diverse da come ci si vede dall'altra parte della telecamere, o diverse dalla pellicola girata dieci anni prima, o al timore che non arrivino più telefonate dai produttori o offerte gagliarde di copioni gagliardi che parlano di ragazze gagliarde. Gente abituata alla plastica, condannata a diventare plastica. Gente che confonde i piani della realtà e finisce col perderla di vista. Ma forse è troppo semplice anche così. «Lasciamele tutte. Ci ho messo una vita a farmele...» disse una volta Anna Magnani al suo truccatore intento a coprirle le rughe con il cerone. Perché il problema non sono le rughe, il problema è come te le sei fatta venire, cosa le ha scavate.
Anche i medici dovrebbero ricordarsi di essere medici prima che chirurghi estetici. O dovrebbero, come insegna Alessandro Bergonzoni, optare per una chirurgia etica prima che estetica: capire quando, più che il seno, bisognerebbe rifarsi il senno. Non a caso queste poverine ricompaiono dal dimenticatoio sotto forma di streghe, Joker o cernie dopo anni professionalmente infruttuosi, flop al botteghino o amori infelici. Sbucano all'improvviso irriconoscibili anche per i loro stessi figli, spaventosi collage di più ere, di più persone, fissandoti con occhi improvvisamente vecchi incastonati a stento in mezzo a facce improvvisamente giovani.
Tornano e sembrano disperatamente voler convincere che non è successo niente, che non è cambiato niente. Ma è sui set che si dice «scusa, questa la posso rifare?», nella vita, purtroppo, è sempre «ciak, buona la prima», anche se è venuta male.
La diva del Diario di Bridget Jones colpisce perché non è solo rifatta male, o troppo: è un'altra. Per rifarsi la faccia, ha perso la faccia. Parlano del suo nuovo boy friend come dell'ultimo amore, dopo una carrellata di storie famose e sfortunate, ma vai a saperlo se sarà davvero l'ultimo, se stavolta andrà bene. E Renée, che ha 45 anni e nella vita ha tribolato più della sfigata paffutella che ha interpretato al cinema, lo sa che non lo si può sapere, esattamente come il sangue sa che ora è anche se ci si tira la faccia fino alla massima (?!) resa. Certi bisturi dovrebbero andare più a fondo prima di tagliare, o invece di tagliare...
Reneé ha pensato di rifare la scena, ma la telecamera era spenta e non c'era nessuno a riprenderla. Si è «truccata» troppo per vivere, roba pesante, permanente. L'ha fatto forse per tornare indietro e adesso non si può più davvero tornare indietro.
E dire che un'attrice dovrebbe essere capace di
aggrottare le sopracciglia e una donna dovrebbe aver voglia di invecchiare con la faccia che si muove. I chili, gli amori, i copioni, gli anni... non si legge più niente su quel viso, tantomeno un nuovo inizio, purtroppo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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