Il mestiere di Arlecchino servo di due padroni non è mai roba facile. Soprattutto se uno dei due annuncia di volerti vedere con soli quattro giorni di preavviso. Un grana non da poco per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che solo venerdì ha saputo di dell'arrivo a Roma del suo omologo cinese Wang Yi. Certo nulla d'impegnativo o d'imbarazzante. Almeno nel linguaggio suadente della diplomazia.
La decisione d'iniziare dall'Italia il suo tour europeo è solo una scelta che «dimostra l'importanza dei nostri rapporti», garantisce benevolo Wang Yi. Ma non occorre Macchiavelli per capire quanta acqua sia passata sotto i ponti da quando - un anno e mezzo fa nella medesima cornice di Villa Madama - Wang Yi e l'allora vice premier Di Maio s'incontrarono per la firma del Memorandum d'Intesa sulla Via della Seta. Allora la Cina sembrava pronta a papparsi i nostri porti e a rifilarci per quattro soldi bucati l'assai sospetta tecnologia 5G firmata Huawei. Oggi dopo i prestiti europei e i moniti americani, di porti non si parla quasi più. Huawei deve, invece, far i conti con il rigoroso recinto di garanzia messo a punto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti alla scadenza del suo mandato. Un recinto di garanzia immediatamente approvato, nel nome della fedeltà atlantica, durante il primo Consiglio dei Ministri del governo giallo-rosso.
Così l'Arlecchino Di Maio è costretto a fare i salti mortali ricordando da una parte l'appartenenza alla Nato «più forte che mai» e dall'altro la diplomazia delle mascherine ricevute dalla Cina «nel momento peggiore dell'emergenza». Ma l'Arlecchino messo all'angolo da un Wang Yi deciso a contare amici e nemici europei è chiaramente in difficoltà. E s'arrampica sugli specchi nel tentativo di far capire al cinese che le sue mascherine non possono competere con i miliardi di Bruxelles. E, tantomeno, proteggerci dalle rampogne di Washington. Dunque niente porti e niente Huawei.
L'unico servile riconoscimento resta la vergognosa amnesia con cui Di Maio, oltre a balbettare vuote banalità su Hong Kong e diritti umani, evita qualsiasi accenno alle responsabilità cinesi sulla pandemia per disquisire invece di un ipotetico «multilateralismo per il virus» che preveda l'impiego di «risorse comuni per arrivare ad una cura e un vaccino il prima possibile». Parole in libertà, ma indispensabili per giustificare la grande ritirata italiana dalla Via della Seta. Sul fronte economico l'unico appuntamento è infatti la partecipazione italiana al China Import Expò di novembre a Shangai accompagnato da un possibile vertice intergovernativo italo-cinese. Per il resto poche vere novità. La Snam presente in Cina, già da due anni, continuerà la sua collaborazione sui gasdotti e nelle sperimentazioni sull'idrogeno. Ma l'assenza di qualsiasi accenno al cruciale settore delle telecomunicazioni è la prova più evidente delle difficoltà di un Di Maio costretto - durante la fase riservata dell'incontro - a metter le mani avanti sulla partecipazione di Huawei al 5G italiano. L'irritazione a lungo contenuta dall'imperturbabile Wang davanti al recalcitrante Di Maio emerge solo quando l'inviato di Pechino parla degli Usa, ma punta evidentemente a farsi sentire da tutto il governo di Roma. «Qualcuno - sibila il ministro degli Esteri cinese - vuole danneggiare le nostre relazioni con l'Europa, ma noi puntiamo a consolidarle.
la Cina non vuole una Guerra fredda è contraria sarebbe una marcia indietro. Ma non permettiamo agli altri di farla per i propri interessi privati, danneggiando gli interessi degli altri». Di Maio avvisato mezzo salvato.
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