Signora ministra, impari qualcosa dal calvario di mio padre

La lettera al ministro Lorenzin

Signora ministra, impari qualcosa dal calvario di mio padre

Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l'inizio della radioterapia, l'altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati.

Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso. È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare «anche 3-4-5 mesi».

Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre.

Quando l'ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l'ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina. Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi.

Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare.

Il peggio, poi, si verificava nell'orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l'occasione per gettare lo sguardo su mio padre.

Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l'altro.

Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri «servono per garantire la privacy durante le visite»; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati.

Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una

barriera. Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c'erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch.

È successo a Roma, capitale d'Italia.

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