Milano - Anis Amri cammina dritto, spedito: come chi sa dove andare e conosce la strada. Sono le 00.58 del giorno in cui morirà. Il terrorista tunisino viene immortalato da una telecamera della stazione Centrale mentre si dirige all'uscita est dell'atrio, l'unica aperta. Un fotogramma sfocato, il volto coperto quasi per intero dal cappuccio. Sono gli abiti a dare la certezza che si tratti di lui: identico zaino, scarpe uguali, la stessa felpa che inzupperà col suo sangue tre ore più tardi, a Sesto San Giovanni.
Non è un'immagine confortante, quella che la Digos milanese decide ieri di divulgare. Racconta che l'autore della strage di Berlino a Milano non vagava a casaccio. Voleva andare a Sesto e sapeva dove prendere i rari autobus notturni che sostituiscono la metropolitana. D'altronde, e questa è la vera e inquietante novità, Amri non era un «lupo solitario», un fanatico individualista, e nemmeno un semplice militante. Era un capo. Un emiro, cioè un gerarca della brigata Abu Walaa, il più insidioso dei gruppi salafiti legati all'Isis che operano in questo momento in Germania.
Dei legami tra Amri e il network di Abu Walaa aveva parlato la Cnn nei primi giorni dopo la strage di Berlino, quando ancora il terrorista era in fuga. Ma l'altro ieri a Fouchanam a sud di Tunisi, vengono arrestati due ragazzi e una ragazza; uno dei maschi è il nipote di Amri, ed è lui a parlare con gli investigatori del ruolo dello zio. «È l'emiro della Katibat (ovvero la brigata o colonna, ndr) Abu Al Walaa in Germania», dice il giovane. Vuol dire che Amri ha preso il posto dell'imam che ha dato il nome alla brigata, l'iracheno (di al-Tamin) Abu Al Walaa e del suo vice, il serbo Boban Simeonovic, arrestati entrambi in novembre dall'antiterrorismo tedesca. La brigata è radicata soprattutto nella Westfalia e nella Sassonia meridionale, ed era stato proprio Simeonovic a accogliere e addestrare Amri alla fine del 2015, quando era arrivato in Germania dall'Italia.
Amri è un capo, dunque: che più passa il tempo e si ricostruiscono i suoi movimenti, più sembra muoversi con intelligenza e lucidità. Dopo la strage l'emiro scende verso l'Italia aggirando la frontiera svizzera, cambiando spesso treno, comprando i biglietti in contanti. Le telecamere lo ritraggono anche nella piccola stazione di Bardonecchia, sulla strada tra Chambery e Torino. Non ha un cellulare, non può fare nuovi piani o stringere nuovi accordi. Ha in mente già una strada segnata, e lo porta a Milano e poi a Sesto.
Qui, intorno al capoluogo lombardo, c'è una cellula pronta ad accoglierlo: per nasconderlo, o anche solo per consentirgli di prendere il fiato prima di proseguire. È questa la ipotesi cui lavora il pm milanese Alberto Nobili, che ha aperto una inchiesta contro ignoti per associazione terrorista. E che Amri fosse già stato a Milano lo dicono anche i numerosi riconoscimenti che vengono segnalati alle forze di polizia, da parte di cittadini convinti di averlo incrociato nei mesi passati. È una faccia particolare, quella di Amri, difficile confonderla. Anche se poi, al momento di firmare il verbale, spesso i testimoni si tirano indietro, come colti da una improvvisa incertezza o da una comprensibile paura.
Se davvero nei mesi scorsi Anis Amri era passato per l'hinterland milanese, allora trova spiegazione la più inverosimile tra le strane coincidenze di questa vicenda: l'approdo di Amri in piazza Primo Maggio a Sesto, ad appena un chilometro e mezzo da via Cantù a Cinisello Balsamo, ovvero dal luogo da cui era partito il 16 dicembre il camion guidato dal polacco Lukasz Urban.
Il tir non sarebbe stato scelto a caso, a Berlino, ma individuato fin dall'inizio dalla «cellula milanese».Sono, come si vede, ipotesi inquietanti. Per capirci qualcosa di più, si stanno frugando i tabulati del cellulare abbandonato da Amri sul camion della strage. Ha una sim tedesca, ma ha fatto numeri italiani.
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