Il copione è ormai collaudato: Matteo Salvini fa il gradasso (contro inermi immigrati o assai meno inermi pm), la Casaleggio manda l'anima bella di turno a scuotere un po' il capino («Ma no, ma su, ma dai»), poi arriva Luigi Di Maio a spiegare che c'è stata una mediazione e Lega e Cinque stelle fanno pace con un bacetto.
È andata così pure ieri: il leader del Carroccio ha fatto la sua sceneggiata anti-pm con tanto di super-cliccato scartamento di pacchi in diretta social, il ministro Bonafede ha difeso i magistrati (Fico viene invece utilizzato in caso di problemi sui migranti) e poi Di Maio ha annunciato che, in un «colloquio notturno» tra i due affezionati vicepremier si era tutto risolto: «Quando non siamo d'accordo io a Salvini glielo dico. E ieri gli ho detto che non deve attaccare i magistrati». Salvini a sua volta spiega che non si sente «al di sopra della legge» (tanto il messaggio lo ha già fatto passare con successo), e Bonafede applaude: «Mi fa piacere che Salvini abbia precisato». Tutto è bene quel che finisce bene, mentre i sondaggi lievitano.
A non aver ancora afferrato che le cose funzionano così sono quelli del Pd, o almeno di quella parte del Pd che pensa che la sinergia Lega-Grillini possa essere spezzata. A loro Di Maio manda un messaggio che suona come sberleffo: dopo aver sottolineato che la scelta di sequestrare la nave Diciotti, criticata pro-forma da Fico tra gli applausi della festa dell'Unità, «la abbiamo presa tutti insieme con la Lega», d'amore e d'accordo, il vicepremier fa un pernacchio a chi «gioca a creare fibrillazioni nella maggioranza, utilizzando la Lega contro di noi e i Cinque stelle contro la Lega». Ma noi, conclude, «siamo qui e siamo al governo», tutti insieme appassionatamente.
Non c'è però da sperare che questo basti a dissuadere i raffinati strateghi che - a sinistra - sognano di separare il grano grillino dal loglio salviniano. Un'operazione studiata nel solito laboratorio del «partito di Repubblica», e lanciata a fine estate da quel quotidiano in un crescendo di interventi culminati nell'appello di Walter Veltroni a ricompattare la «sinistra» contro il nemico (non la maggioranza gialloverde ma la destra xenofoba di Salvini), recuperando una «identità» e un «popolo» che si sarebbero persi negli anni del riformismo confuso e troppo macronista del renzismo. È la linea che dovrebbe portare alla guida del Pd (anche per mancanza di avversari) l'ex Ds Nicola Zingaretti. Affidandogli poi il compito di tentare la stessa operazione magistralmente orchestrata da Massimo D'Alema con il ribaltone del '95. Operazione, stavolta, a «costole» invertite: allora si operò per staccare la Lega di Bossi (definita «costola della sinistra») da Berlusconi. Stavolta si dovrebbero staccare i Cinque stelle, nuova costola della sinistra (che per colpa del Pd renziano, dice Dario Franceschini, «abbiamo buttato in braccio a Salvini») dalla Lega. E successivamente - è il non detto - dare a quella stessa costola grillina i voti necessari in Parlamento per fare un nuovo governo.
Una prospettiva contro cui ieri si scagliava l'ala liberal del Pd: «Si sbaglia nemico, per subalternità culturale, scegliendo quello
facile della xenofobia salviniana» per «archiviare il riformismo», inseguire una Cgil già «subalterna» a M5s e «non combattere il populismo nazional-socialista dei Cinque stelle», denuncia lo storico Alberto De Bernardi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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