Sofri «esperto carceri» Ma l'innocente per forza rifiuta la nomina

Con gli anni si impara a dire no. È saggezza. È guardare la vita con un certo distacco. È farsi da parte, lasciando agli altri chiacchiere e polemiche. Non mischiarsi. L'impressione è che Adriano Sofri sia migliore di chi lo tira per la giacca.

Andrea Orlando, ministro della Giustizia, lo chiama come consulente per la riforma del sistema penitenziario. Sofri come una firma, una figurina, come chi conosce la prigione, lo spazio stretto della sua vecchia cella al Don Bosco di Pisa, con i libri in bilico e le guardie carcerarie preoccupate. Qualcuno adesso non gradisce. Perché il governo chiama proprio lui? Polverone. Il passato ritorna. Torna l'assassinio del commissario Calabresi. Torna la condanna a 22 anni di carcere come mandante. Torna la responsabilità morale e quel processo lungo, tormentato e contestato. Torna tutto, come (...)

(...) sempre. Sofri si limita a poche parole: «Nessuna nomina. Mi hanno chiesto di partecipare a una riunione. Non ci andrò». È il destino del capo carismatico di Lotta continua. C'è un mondo che non può fare a meno di lui. Lo chiama. Lo evoca. Lo spinge sul palcoscenico, come un senso di colpa diffuso, come se Sofri avesse pagato per tutti, il capro espiatorio di una sbornia collettiva. È un mondo di uomini di potere, di giornalisti e di intellettuali. Tutti sopravvissuti agli Anni di piombo. Tutti salvati. Sono la ricca e vera borghesia di questo Paese, quelli che con la scusa della rivoluzione si sono davvero presi tutto, tanto da lasciare ai posteri solo cenere e macerie. Si sono presi il meglio: la speranza, la gioventù, i soldi pubblici, le poltrone, le buone pensioni, i sogni e qualche etto di utopia. Sono stati giovani quando era bello essere giovani e vecchi quando conviene essere vecchi. Nessuno come loro. Sofri è stato l'ultimo presunto innocente. Fino alla fine. Forse l'ultimo disperato tentativo di fare pace con la propria coscienza. Se Sofri è innocente tutti siamo innocenti. E così lui ha pagato per tutti.

Sofri poteva (doveva) essere il simulacro di tutto questo. Non lo è mai stato fino in fondo. Non ha chiesto la grazia. È stato santificato, ma non ha indossato l'aureola del santo. Non ha scelto neppure di essere un martire, perché ha continuato a scrivere, e questo è il suo «peccato». Il peccato che probabilmente non gli perdonano. Ma nessuno può smettere di essere se stesso. E Sofri è Sofri.

Scriveva anche in carcere, tutti i giorni. Era il Sofri quotidiano della Piccola posta , antenato cartaceo (sul Foglio ) del blog. Era il Sofri settimanale dell'ultima pagina di Panorama , attento ai casi letterari e alle questioni del secolo. È il Sofri opinionista di Repubblica . O quello che raccontava il carcere e il suo micromondo. È il Sofri nostalgico di un calcio da cortile: «Se tu guardi una partita di ragazzini incontrati al parco, dopo dieci minuti già ricostruisci il modo di essere di ciascuno, li distingui, ti diverti nel vedere le loro fisionomie e le loro reazioni». È il Sofri che si è lasciato alle spalle il vecchio secolo, con il distacco o il disincanto di chi ha capito.

Quando la sbornia passa restano i cocci di bottiglia. È l'eredità degli anni '70. Su Sofri ha pesato, come su molti altri. Nel suo caso a scoppio ritardato, come un beffa, come un giudice distratto, come il controllore che ti chiede il biglietto quando il treno è già arrivato. È come sentirsi in quella serie di quadri di Munch intitolati La mattina dopo : «In paesi in cui la gente la sera si ubriaca, la mattina dopo si ha un gran mal di testa, vergogna di sé, spirito suicida, cerchio alla testa».

La mattina dopo di Sofri è Leonardo Marino, il pentito, il teste chiave, l'onere della prova. «È troppo facile ritenersi responsabile solo dei propri amici di oggi. Si è responsabili, in modo più labile ma profondo, anche dei nostri amici di ieri. Per questo non posso sbarazzarmi di Marino dentro di me». Ci sono voluti sette processi, cento giudici e migliaia di carte per arrivare a una sentenza. La verità giudiziaria è che Sofri, Bompressi e Pietrostefani erano colpevoli. Chi conosce un'altra verità non l'ha mai rivelata. Forse la diranno un giorno, come ha promesso Erri De Luca. Sofri ha pagato. E questa è una verità che merita rispetto.

Non ha mai chiesto la grazia e non gli è stata concessa. Se esiste un giudice ultimo ne terrà conto, dando un senso alle parole dei vivi e dei morti. Quello che resta è un pezzo di Novecento ancora tutto da decifrare. E da passare ai posteri.

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