Non ha vinto nessuno. Possibile anche a 300 all'ora in una gara in cui vincere è tutto. Perché il vincitore, quello arrivato primo insomma, è l'unico che non conta. Gli altri sono in un mischione di sconfitti, chi più chi meno. La storia la sapete, perché è da ieri mattina che non si parla d'altro: il duello Valentino Rossi-Marc Marquez nella penultima gara del Mondiale di MotoGp. Un duello per la terza posizione, con il primo in lotta per il Mondiale e il secondo in lotta per nulla che non sia il suo orgoglio. Un orgoglio ferito dal fatto che il suo idolo, ovvero Rossi, in settimana l'ha attaccato, gli ha detto che nel gran premio precedente ha fatto il gioco sporco a favore di Lorenzo, spagnolo come lui e rivale di Rossi per il titolo. Marquez va giù, spinto in un corpo a corpo da un ginocchio di Valentino. Voluto? Non voluto? A questo punto saperlo è quasi inutile. Perché questa gara assurda non ha torti né ragioni, ha soltanto sconfitti: Rossi, penalizzato a fine gara, partirà dall'ultima casella in griglia a Valencia, nell'ultimo e decisivo Gp. È praticamente una sentenza di morte sportiva, perché da quella posizione non si può vincere, è complicatissimo arrivare a punti e a Valentino per vincere il Mondiale serve che tra Lorenzo e lui non ce ne siano più di sei di margine. Visto quello che è successo ci si chiederà per sempre se non valesse la pena farlo andare Marquez in quel duello e contenere i danni, magari risuperandolo, magari evitando una mossa al limite, forse scorretta, forse no, forse chissà. Deve essere nero, Vale. È nero perché sa che la traiettoria presa per ostacolare Marquez è sbagliata, ma sa anche che a questo punto aveva ragione: Marc, il ragazzino, correva solo per danneggiarlo. In Australia era una sensazione, in Malesia una certezza: perché l'ostinazione con cui voleva mettere la sua ruota davanti a quella di Rossi, unita alla totale remissione quando l'avversario che lo stava superando era Lorenzo sono più di un sospetto. Marquez sembrava una vittima e basta, a prima vista. Invece ha perso anche lui: correre per se stessi è nobile, è giusto, è sacrosanto. Correre, come ha detto Valentino, «per decidere lui chi deve vincere il Mondiale» è un'altra cosa. Forse, anzi senza forse, c'è un gap generazionale che spiega l'amore diventato rivalità e ora astio: il vecchio (sportivamente) e il ragazzino. Uno erede dell'altro, ma con il veterano che quest'anno l'ha messo sotto. Marquez ha perso perché ha contribuito a rovinare una lotta fantastica.
Hanno perso i giudici, anche. La punizione inflitta a Valentino non punisce quella che per loro è una scorrettezza: punisce il Motomondiale. La paura di sembrare non esemplari con l'uomo che ha trasformato la MotoGp in uno sport di massa, l'incubo di sembrare proni alla star li ha portati a una decisione folle, vigliacca, che decide a tavolino il vincitore del Mondiale.
Perde la MotoGp, che da questa storia esce male, come i due protagonisti, forse di più. Nel suo ultimo atto rischia di non avere Rossi, che ha minacciato di non andare a Valencia. Bene che vada avrà una corsa inutile, una passerella, una pagliacciata.
Quindi vince Lorenzo. In senso stretto sì. Vincerà anche il Mondiale, probabilmente.
Ma in questa storia perde anche lui, che, mentre Marquez e Rossi sono dai giudici, entra non invitato e dice la sua, che muore di invidia, che è fortissimo, ma non sa gestire il fatto che Rossi sia la stella anche a 36 anni. Vincerà un Mondiale in cui ha corso benissimo, in cui però non saprà mai quanto ci sia di suo e quanto dei giudici di corsa. Non è come arrivare primo perché sei sicuramente il più veloce.
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