P arole, parole, parole. «A raffica, trasmesse, a mano tesa, sussurrate, sputate, a tanti giri, riverite», cantava qualche anno fa Guccini. E pure in questa campagna elettorale di parole ne sono volate a sufficienza. Inevitabile che anche il dizionario utilizzato degli aspiranti sindaci, passato ai raggi X, contribuisca a connotarli. All'uopo hanno pure inventato un'applicazione: un sistema che setaccia tutto il bla bla e calcola quale sia il lemma più utilizzato da Tizio o Caio. Ovvio che il freddo e stupido computer segnali la vittoria dei lemmi «città», «cittadini», «Roma» o «Milano». Un'analisi più attenta e meno matematica dei vocaboli, però, ci dice qualcosa di più dei nostri futuri amministratori.
Partiamo dal Nord. Parisi punta tutto sul «noi». Forte di un'alleanza che va dalla Lega a Forza Italia, passando per Ncd e Fratelli d'Italia, l'ex city manager di Albertini ha sempre puntato sulla coalizione, parlando alla prima persona plurale: «Faremo», «cambieremo», «gestiremo». Quasi mai un «io» o un'impersonale «si deve»; quasi sempre un «noi»; associato a «modernizzare», «efficienza», «legalità», «sicurezza». Nei discorsi di Parisi, oltre ai contenuti, passa l'idea di «squadra». Omogeneizzante.
Più impersonale il linguaggio dell'avversario, Sala, che infarcisce i suoi ragionamenti di «occorre» e «serve». Più difficile, poi, il suo messaggio: uno zig zag perenne tra la «continuità» e il «cambiamento». Come tutti parla di «case», «emergenze», «periferie» ma i suoi discorsi sono una gimkana tra i necessari elogi al predecessore Pisapia e gli opportuni appelli al rinnovamento. Schizofrenico.
Gianluca Corrado, candidato grillino e avvocato con radici sicule, nelle sue arringhe politiche pigia sul tasto che lo differenzia dagli altri. Così, ogni due per tre, cita i «partiti». «Basta con i soliti partiti»; «Siamo diversi dai partiti di destra e sinistra»; «Loro sono schiavi dei partiti». Altro spauraccio del candidato grillino sono le «lobbies» e i «lobbisti»: «Sala e Parisi finanziati dalle lobbies», «I milanesi sono l'unica nostra lobby», «uscire dalla logica delle lobbies e dei partiti». Monotono.
L'atout di Marchini, imprenditore romano prestato alla politica, è senza dubbio quello di essere un «uomo del fare». Industriale e dinamico, di energia ne ha da vendere. Le parole chiave della sua campagna elettorale? «Rinascita», «cultura», «tasse» (da abbassare, of course ndr.) e «sprechi». Forse più degli altri ha voluto parlare di lavoro: «Sono sconvolto da quanto il tema del lavoro sia rimasto fuori da questa campagna elettorale. È invece un tema centrale». Altro lemma forte e ribadito spesso è «civico». In alternativa al «politico», sinonimo di vecchio, superato, fallimentare. «Partecipazione civica», «movimento civico», «progetto civico». Urbano.
Giorgia Meloni è Roma. Già l'hashtag della sua campagna elettorale su Twitter la dice lunga: #questaèroma. Tanta Roma ma anche tanti rom. «I campi rom vanno chiusi perché baraccopoli indegne di una Nazione civile». E ancora: «quartiere», «borgata», «servizi» e «cittadini». Mette nel cassetto la parola «destra», categoria un po' vetusta, ma i contenuti sono di destra-destra. Parla di «Nazione», «orgoglio», «Italia», «italiani», «famiglia» e, naturalmente, di «Capitale». Amatriciana.
Che il piddino Giachetti sia partito con l'handicap lo si capisce anche da uno dei verbi più utilizzati dal renziano: «recuperare». «Recuperare fiducia», «Recuperare credibilità» oltre che, ovvio, «recuperare risorse». 'na fatica. Ecco, la fatica. Uno dei tasti pigiati da Giachetti. «Voglio una città meno faticosa, in cui ogni romano abbia mezz'ora di tempo in più al giorno». In effetti anche solo spostarsi in città è uno stress inenarrabile tra traffico, autobus da terzo mondo e metropolitana da quarto. Non a caso lo stesso Giachetti ha girato in lungo e in largo la città in sella alla sua moto: altro elemento che ha caratterizzato la sua campagna elettorale. Come la Meloni anche Giachetti è romanissimo. Il suo hasthag più fortunato? «Ma de che stamo a parlà?». Spossato.
E per finire l'algida Virginia Raggi, telegenica, posata, autrice di un hashtag fortunato: #CoRAGGIo. Anche lei, come il collega milanese, ha puntato tutto sul rinnovamento. «O si cambia o tutto si ripete»; «i vecchi partiti hanno avuto 20 anni di tempo per realizzare i loro slogan e non hanno fatto nulla». E poi il cibo.
Partendo dal motto «Avete finito di mangiarvi Roma», la Raggi l'ha declinato per tutto: «Avete finito di mangiarvi la sicurezza della città»; «Avete finito di mangiarvi la scuola»; «Avete finito di mangiarvi il verde pubblico»; «Avete finito di mangiarvi l'Ama». Bulimica.
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