RomaPer tutto il giorno gli occhi sono rimasti puntati sulla Consulta. Motivo: la decisione della Corte costituzionale se accogliere o meno il ricorso contro il blocco dei rinnovi contrattuali per oltre 3 milioni di statali. Costo complessivo dell'operazione, circa 35 miliardi di euro. Una vera e propria bomba ad orologeria sotto i conti pubblici.
La camera di consiglio si è riunita nel primo pomeriggio. In serata, però, la seduta è stata sospesa ed aggiornata ad oggi. A Palazzo Chigi ed al ministero dell'Economia il pessimismo era palpabile. Nel senso che il governo si attendeva l'accoglimento parziale del ricorso contro il blocco.
In un certo senso, anche Vincenzo Rago - l'avvocato di Stato che difendeva il governo - l'ha fatto capire. Nel suo intervento davanti alla Consulta ha infatti sottolineato che se la Corte dovesse optare per una pronuncia di incostituzionalità delle norme che hanno bloccato i rinnovi dei contratti pubblici, almeno «chiarisca i tempi della propria applicazione».
Non a caso, lo stesso Rago ha provato a convincere i giudici costituzionali che anche loro devono rispettare l'articolo 81 della Costituzione (riformato), che prevede l'obbiettivo del pareggio di bilancio.
Un richiamo che la Consulta non avvertì di dover rispettare per la sentenza delle pensioni. Mentre lo rispettò per quella sulla cosiddetta Robin tax . Tant'è che pur dichiarata incostituzionale (era una tassa sulle società petrolifere) non venne chiesta l'applicazione retroattiva.
E sarebbe proprio questo l'orientamento dei giudici costituzionali, la cui sentenza è attesa per oggi. Così in serata sono iniziate a circolare le prime indiscrezioni sull'orientamento della Corte. Vale a dire, sblocco della contrattazione a partire dal 2016. In compenso - ed a differenza di quel è avvenuto per le pensioni - ai dipendenti pubblici non verranno riconosciuti gli arretrati maturati nei cinque anni di blocco contrattuale.
Il problema di finanza pubblica rimarrebbe, ma verrebbe affidato alla contrattazione fra le parti. E non ammonterebbe ai 17 miliardi a regime, che sarebbero scattati qualora la Consulta avesse accettato di accogliere pienamente il ricorso. Ma «contenuto» in 5/7 miliardi, a valere sul bilancio del prossimo anno.
Una soluzione salomonica, a differenza di quella sulle pensioni, che metterebbe comunque a rischio il rispetto degli obbiettivi di finanza pubblica annunciati dall'Italia a Bruxelles per il prossimo anno.
Ma che permetterebbe a Palazzo Chigi ed all'Economia di comprimere il deficit sotto il tetto del 3% sia quest'anno, sia il prossimo.
Ormai «bruciato» il presunto «tesoretto» (1,6 miliardi) sul fronte del rimborso previdenziale, il governo non ha margini di manovra per appesantire il deficit nominale di quest'anno, già salito al 2,7/2,8%. Quello strutturale, invece, è rimasto fermo: le spese una tantum non lo appesantiscono.
Per il 2016 il governo ha stimato un deficit all'1,8% del Pil. Ne consegue che se dovesse caricarci sopra il costo dello sblocco dei rinnovi contrattuali - per definizione pluriennali - riuscirebbe comunque a rispettare gli obbiettivi di un deficit inferiore al 3%.
Se oggi la Corte costituzionale dovesse confermare questo schema, ne emergerebbe una valutazione «politica» dei giudici della Consulta che è mancata per la sentenza sulle pensioni.
La scelta di non obbligare il governo a pagare gli arretrati agli statali, infatti, evita di appesantire i conti pubblici che - altrimenti - avrebbero oltrepassato il livello del 3% di indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Ed avrebbero precluso al Paese di utilizzare i margini di flessibilità previsti dai trattati Ue.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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