L'incubo inizia con una telefonata il giorno di Santo Stefano. È il medico che ha in mano le sue analisi: «Sei sieropositiva. Il mondo mi crolla addosso». Lei è una donatrice del sangue, gli esami sono quelli di routine. Doveva essere tutto come sempre. E invece. Il respiro si blocca e il cuore batte a mille. La ragazza non ha nessuno dei fattori di rischio previsti. Choc. «Ripenso subito agli esperimenti che avevo fatto sette mesi prima mentre ero all'estero: mi erano stati fatti manipolare pezzi del virus. Ma erano virus che non potevano replicarsi, detti difettivi. In teoria un'operazione senza rischi». L'ex studentessa modello di Padova, si rende immediatamente conto di quello che le stava succedendo: aveva contratto il virus dell'Hiv in laboratorio all'interno di un'università straniera dell'Unione europea. Ma la sfida per lei sarà dimostrarlo. Le serviranno sette lunghissimi anni. Abbattere i muri dei pregiudizi, la solitudine e lo sforzo titanico per avere giustizia. «Il primo medico a cui mi rivolgo non trova riscontri; mentre il precedente legale avvisa l'ateneo estero con una lettera in italiano, fatta tradurre da un'altra studentessa, che semina il panico». Ci vuole coraggio per affrontare a testa alta la battaglia; lei non si arrende. E lo racconta dopo sette, estenuanti anni. Alle pagine del Corriere del Veneto spiega di aver dovuto anche cambiare avvocato, arriva quello attuale, Antonio Serpetti. Capiscono che la posta in gioco è alta. E il tema delicatissimo. Di fronte al silenzio degli Atenei, partono le prime diffide per l'apertura assicurativa dell'incidente. La sua vita intanto è stravolta. Il fidanzato che la lascia dopo sei anni insieme, la carriera che nonostante quel 110 e lode non decolla, il segreto che lei per pudore e per vergogna condivide solo con i famigliari.
Intanto i ricercatori hanno decretato che effettivamente il virus che ha in corpo la ricercatrice, non è quello circolante tra gli uomini, ma è proprio identico a quelli costruiti in laboratorio. Resta però un mistero come sia avvenuto il contagio. Non per guanti bucati o punture, si considera addirittura la choccante ipotesi di una trasmissione dell'Hiv «via aerosol». «La verità - dice lei - è che non ho idea di cosa possa essere accaduto. Da allora me lo chiedo tutti i giorni. L'unica certezza è che non dovevo essere esposta a un virus capace di replicazione». «Nessuno preparò me e gli altri studenti che entrarono in quel laboratorio a quegli esperimenti - prosegue -. Non ricevemmo alcun corso, nessuna indicazione sulla sicurezza.
In tutti questi anni né l'università italiana, dove mi sono laureata né quella straniera, dove è avvenuto l'incidente, si sono interessate a me. Sapevano tutto, ma mai una parola o una telefonata: mi hanno lasciata sola». Ha deciso di fare causa contro le due università. E aspetta giustizia.
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