Solo vent'anni fa erano un arma super esclusiva monopolio di paesi come Israele e Stati Uniti capaci di abbinare tecnologie super sofisticate e grandi investimenti in campo militare. Oggi sono l'equivalente del kalashnikov, un'arma semplice e alla portata di tutti, ma capace, se usata bene, di ribaltare le sorti dei conflitti infliggendo colpi dolorosi ad avversari apparentemente superiori. Lo si è visto anche ieri quando i droni suicidi, delle milizie houthi, hanno colpito alcune autocisterne di carburante uccidendo almeno tre persone all'aeroporto di Abu Dhabi, capitale di quegli Emirati Arabi coinvolti, con l'Arabia Saudita, nel conflitto che dilania lo Yemen da oltre sei anni. Grazie all'appoggio degli iraniani, pronti a sostenerli nella lotta contro i comuni nemici sunniti, una semplice insurrezione tribale si è trasformata in un devastante conflitto regionale. E con l'arrivo dei droni quel conflitto ha annullato non solo le distanze, ma anche l'abisso economico e strategico tra le tribù del nord dello Yemen e due potenze regionali come Arabia Saudita ed Emirati forti di sofisticati armamenti messi a disposizione dall'alleato statunitense.
Quella di ieri non è una novità. I droni houthi avevano già dimostrato la loro micidiale efficacia nel novembre 2019 quando avevano distrutto la raffineria saudita di Abqaiq. Che i droni si stessero trasformano in un'insidiosa arma asimmetrica, capace di livellare disuguaglianze strategiche e sconvolgere consolidati ordini regionali e globali, lo si era capito sin dall'aprile 2019 quando il generale Khalifa Haftar aveva lanciato l'offensiva con cui contava di conquistare Tripoli e gran parte della Libia. In quello scontro i droni cinesi, forniti al generale dagli Emirati Arabi, e quelli turchi, messi a disposizione di Tripoli dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan, erano diventati gli autentici protagonisti del conflitto. Ma la sconfitta incassata da Haftar si è rivelata anche il miglior spot pubblicitario per i droni Bayraktar TB2 prodotti da Selçuk Bayraktar, genero di Erdogan. Nell'ottobre 2020 quelli stessi droni hanno consentito all'Azerbajan di riprendersi buona parte dell'enclave del Nagorno Karabakh strappatagli 25 anni prima dal nemico armeno. Da allora i droni turchi sono uno dei prodotti più richiesti sul mercato internazionale degli armamenti. Nigeria, Marocco ed Etiopia se ne contendono le forniture, mentre l'Ucraina li ha già schierati nel Donbass.
Oltre a garantire preziosi introiti alle dissanguate casse turche i Bayraktar stanno anche ribaltando il rapporto di apparente collaborazione geo-strategica tra Ankara e Mosca. La comparsa sul quadrante ucraino dei droni responsabili delle sconfitte dall'alleato libico e di quello armeno ha allargato le distanze tra Putin e un Erdogan considerato, fino a quel momento, un partner insidioso, ma anche prezioso nell'ambito dello scontro con la Nato.
Ma con la stessa l'efficacia con cui stanno contribuendo a destabilizzare consolidati ordini regionali i droni minacciano anche di amplificare le capacità di gruppi e organizzazioni terroristiche. Già nel 2016 chi scrive fu testimone delle incursioni dei droni dell'Isis usati per sganciare granate da 50 millimetri sulle forze della coalizione intorno a Mosul.
In un prossimo futuro gli stessi droni potrebbero essere utilizzati per colpire al cuore le nostre città. Ribaltando la finalità di uno strumento bellico considerato, inizialmente, l'arma migliore per eliminare i capi terroristi e minimizzare le perdite collaterali.
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