S i fa presto a dire «street food». Il cibo da strada che negli ultimi anni è diventata un'etichetta di successo per tutto quello che si può consumare camminando (e che a volte è servito anche per nobilitare qualche solenne porcheria) è sì un vanto del made in Italy. Ma poi, al dunque, nel centro delle nostre città è spesso più facile addentare una pita con il kebab che un cartoccio di olive ascolane. Per dire.
Troppo facile mettere sotto accusa l'etnicizzazione del nostro mangiare quotidiano. Non crediamo all'autarchia del cibo, ma al potere di quello che è più buono. Proprio per questo ci è difficile credere che in nome di discutibili leggi di mercato il sushi (che peraltro è anche un alimento piuttosto costoso) sia necessariamente più gradito ai nostri palati di un «cuoppo» alla napoletana, ovvero un cartoccio di fritti misti acquistato da una bancarella e mangiato scottandosi le dita e la lingua. «Ormai per trovare il baccalà fritto da passeggio a Roma o il panino e milza a Palermo i turisti sono costretti a cercare su internet o nelle guide», afferma Coldiretti. Che ieri ha radunato migliaia di agricoltori davanti al Palatiziano di Roma per sensibilizzare l'opinione pubblica e gli amministratori cittadini sull'apertura indiscriminata nei centri storici delle nostre città, quelli che dovrebbero essere anche una vetrina delle nostre eccellenze agli occhi dei turisti, di esercizi che propongono kebab, falafel, hamburger e sashimi. Si tratta, come denuncia l'organizzazione, di «una preoccupante perdita del radicamento territoriale e di un impoverimento della varietà dell'iofferta, ma anche di uno scadimento qualitativo con preoccupanti riflessi sul piano sanitario». Insomma, un appiattimento e una omologazione verso il basso che distrugge la distintività», con il risultato che «i turisti trovano da Palermo a Milano gli stessi cibi di New York, Londra e Parigi». Così ieri banchetti e Apecar (ormai il mezzo simbolo del cibo di strada all'italiana) hanno distribuito olive ascolane, «cuoppi», l'Agripanino di Chianina dall'Umbria, pane e panelle, arancini siciliani, arrosticini abruzzesi, i peperoni cruschi lucani trasformati in snack, gelati contadini, mozzarelle di bufala al bicchiere eccetera.
Al di là dell'invasione di esercizi etnici il cibo da strada italiano se la passa piuttosto bene. Nei primi mesi del 2016 la ristorazione ambulante in Italia ha registrato una crescita record, con un aumento del 13 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Sono cresciute anche le imprese impegnate nella preparazione di cibo da strada presso banchi del mercato o con furgoni attrezzati, passati da 2017 a 2271. Dati contenuti nello studio «Cibo di strada tra rischi ed opportunità», presentato ieri. La Lombardia con 288 realtà, e un incremento annuo del 26 per cento è la regione dove la ristorazione ambulante è più presente, seguita da Puglia (271), Lazio (237), Sicilia (201), Campania (189), Piemonte (187), Veneto (161) e Toscana (142), secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Unioncamere relativi a marzo scorso.
Quest'anno quasi due italiani su tre (65%) hanno consumato street food. Il cibo della tradizione locale è peraltro il preferito (81%), mentre il 13% sceglie quello internazionale come gli hot dog e il 6% i cibi etnici come il kebab. Poi però per strada troviamo solo quelli.
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