Cronache

Le svastiche sulla lapide di Alfredino e la deriva vigliacca contro la memoria

Profanata la tomba del bimbo morto in un pozzo a Vermicino 41 anni fa. Undici segni ignoranti, non una semplice bravata

Le svastiche sulla lapide di Alfredino e la deriva vigliacca contro la memoria

Ci sono bestie che si muovono nei cimiteri di Roma. Non sono i cinghiali che scelgono siti dove esistono rimasugli di vita. Sono uomini, una gang di giovinastri, ombre di esistenze miserabili e violente che hanno scaricato la loro viltà sulla tomba di Alfredino Rampi, al padiglione 85 del Verano. Undici svastiche, undici graffi ignoranti, undici segni di un vuoto che non può e non deve avere giustificazione, non sono messaggi ma tracce di chi non sa nemmeno che cosa rappresenti quelle insegne lugubri dentro quel loculo, pietre che ci riportano la memoria di un evento tragico, l'Italia in ansia nei giorni di giugno dell'Ottantuno.

Alfredo aveva sei anni, la scuola era finita, il tempo delle vacanze concedeva altri sogni infantili, correva nei campi di Vermicino tra Roma e Frascati, c'era un piccolo cantiere accanto alla casa dei genitori, una lamiera era stata messa a coprire un pozzo artesiano. Alfredo la spostò, con gli occhi curiosi provò a scrutare, sentì l'eco della voce, scivolò, cadde, nel silenzio attorno. Venne la notte, vennero giorni terribili, di ansia e terrore, disperazione e tragedia, ricerche in ogni dove, spiraglio, cespuglio, i lamenti di Alfredino, solo con la sua sofferenza nel buio, là sotto, a sessanta metri di profondità, riempivano le case degli italiani collegati in diretta televisiva, diciotto ore per un dramma che non aveva fine, soffocati dalla paura, non era un film, non era una fiction, eppure s'era formata la folla di curiosi, di ambulanti e poi i parenti, quelli arrivati da lontano e cronisti e forze dell'ordine e infermieri, medici, un'ambulanza e, infine Sandro Pertini, come un cast cinematografico per una storia senza colonna sonora, senza un copione scritto ma con una sua verità angosciante. Finì il tredici di giugno quell'attesa, finì con l'ultimo respiro di Alfredino, dopo uno, due, tre tentativi di riportarlo alla luce e alla vita da quella bocca infernale che era diventato il pozzo artesiano.

Vermicino è rimasto il luogo delle tenebre, quarantuno anni dopo, la ciurma ha voluto lasciare la propria orma ripugnante, di sicuro nulla sapendo, niente conoscendo epperò vivendo di questa assenza del tutto, cadaveri viventi, strisce umane perché così, tali e quali, vanno segnalati e possibilmente poi riconosciuti, in modo da esibire i loro volti, i loro corpi, i loro nomi e cognomi, più infimi dei quei sessanta metri di Alfredino. Non si tratta di sbandati, non è stata una bravata, è la deriva che trova spazio dovunque, nello stupro, nell'oltraggio, nella minaccia, nell'insulto. Sopra la fotografia di Alfredino, sorridente, in maglietta e, accanto l'immagine, di suo fratello Riccardo, morto di infarto sette anni fa, hanno schizzato una, due undici svastiche aggiungendo parole ingiuriose, la nicchia porta due vasi con fiori di campo, margherite bianche e un cero, al centro una lampada votiva. Sabato alla Garbatella era stato inaugurato un murale che ritrae Alfredino, la stessa immagine, lo stesso sorriso.

Le carogne si nascondono dietro un ghigno vigliacco.

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