Una traccia, l'unica. Dare un nome al sicario che il 6 gennaio 1980 uccise Piersanti Mattarella presidente della Regione Sicilia, forse era possibile: il guanto del "biondino col kway" che in via della Libertà, a Palermo, uccise l'uomo del rinnovamento democristiano era lì, fotografato sulla 127 usata dall'assassino e dal suo autista per allontanarsi dal luogo dell'agguato. Ma quel guanto è sparito: dall'auto, dalle cronache, dai processi. E ora, a quarantacinque anni da uno dei cold case della Repubblica, a rispondere della sua sparizione viene chiamato un poliziotto importante, Filippo Piritore, all'epoca giovane funzionario della Squadra Mobile di Palermo, da ieri agli arresti domiciliari per depistaggio. Un nuovo, fosco capitolo si apre nella saga dei rapporti occulti tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato. E la vittima è stavolta - direttamente, personalmente, - il capo dello Stato: Sergio Mattarella, che da quella mattina di inverno aspetta di sapere il nome di chi uccise suo fratello.
Questore dell'Aquila e poi di Genova, Piritore, 75 anni, si trova catapultato al centro dell'inchiesta bis sull'omicidio di Mattarella, aperta su una serie di spunti arrivate da diverse direzioni ma con un unico obiettivo: oltre ai mandanti, indicati e condannati nella Cupola di Cosa Nostra, individuare le collusioni retrostanti, e dare un nome ai due esecutori materiali, indicati di volta in volta dai pentiti in una serie di gregari dei clan, e infine in Valerio Fioravanti, il capo dei Nar neofascisti, anche lui prosciolto. Una ricerca resa ardua dall'assenza quasi totale di tracce sul luogo del delitto. Inutilizzabili le poche impronte digitali. Vaghe le somiglianze dei proiettili con altri delitti di mafia.
Però c'era, inequivocabilmente, un guanto di pelle marrone: dell'assassino o del suo complice, abbandonato sulla 127. Piritore è tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto. D'altronde, dice ora a verbale un suo collega dell'epoca, "era il più intraprendente, arrivava sempre prima degli altri". È a lui che la Volante consegna tutto ciò che viene trovato sull'auto: oggetti in parte del legittimo proprietario, che invece dice subito: "il guanto non è mio". Appena nove giorni dopo, Piritore restituisce al proprietario gli altri oggetti. E il guanto? Dice di averlo consegnato a un agente della Scientifica per farlo avere al pm che indagava, Piero Grasso (divenuto anche lui poi un'alta carica dello Stato). Ma né l'agente né Grasso, interrogati ora, dicono di averlo mai ricevuto. Grasso nega anche di avere mai saputo dell'esistenza di un guanto ritrovato (anche se già parlando alla Camera, pochi giorni dopo il delitto, del guanto aveva parlato il ministro degli Interni Virginio Rognoni). E poliziotti e dirigenti dell'epoca, tra buchi di memoria non tutti comprensibili, sono concordi nello smentire la versione di Piritore. Conclusione: "È accertato - si legge nell'ordine di arresto - che fin dal suo rinvenimento il guanto è rimasto nella disponibilità di Filippo Piritore e poi se ne sono perse le tracce". Scrivono i pm: "Piritore ha dimostrato di essere portatore dal 1980 e fino ad ora di interessi contrari all'accertamento della verità sull'omicidio Mattarella: interessi che riguardano un ampio e imperscrutabile contesto".
Quanto accaduto nel 1980 è prescritto: ma Piritore viene arrestato per avere mentito e depistato l'anno scorso, quando venne interrogato come testimone. Unica concessione: "Non è stato finora possibile dimostrare con certezza se all'epoca il giovane Piritore agì con la piena consapevolezza di disperdere il guanto o se fu indotto in errore dalla sua dirigenza".
Dirigenza di cui il gip fa nome e cognome: Bruno Contrada, all'epoca capo della Squadra Mobile di Palermo, già condannato per mafia e poi riabilitato. E che, a 94 anni compiuti, si ritrova al centro di un nuovo mistero della Repubblica.