La svolta di Draghi: "Ue federalista"

L'ex premier insignito in Spagna: "L'Europa è sotto attacco, ecco come cambiarla"

La svolta di Draghi: "Ue federalista"
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"Non in ossequio a un sogno ma per necessità, il futuro dell'Europa deve essere un percorso verso il federalismo". Con questa frase ieri Mario Draghi ha condensato nel suo discorso per il conferimento del premio Princesa de Asturias per la Cooperazione internazionale l'essenza della sua visione politica: un'Europa che non si limiti a resistere, ma che impari finalmente a decidere. L'ex presidente del Consiglio ha parlato da statista europeo, non da tecnocrate. "Oggi siamo una confederazione europea che semplicemente non riesce a far fronte alle proprie esigenze", ha ammonito, sottolineando come le sfide della difesa, dell'energia e dell'innovazione "richiedano scala continentale e investimenti condivisi".

Ma il messaggio più forte, anche se non esplicitato nei dettagli, riguarda la necessità di superare il principio dell'unanimità che paralizza il Consiglio europeo. In un'Europa in cui ogni Stato ha diritto di veto, il cambiamento è quasi impossibile. L'appello di Draghi è a un salto di qualità: le decisioni cruciali devono essere prese a maggioranza. Non lo ha affermato esplicitamente ma con una domanda retorica. "Quanto grave deve diventare una crisi affinché i nostri leader uniscano le forze e trovino la volontà politica di agire?", ha chiesto. Solo così, ha suggerito, sarà possibile costruire "coalizioni di volenterosi attorno a interessi strategici condivisi" che procedano più rapidamente, senza essere ostaggio di chi frena. In altre parole, un'Europa a due velocità, dove chi vuole riformare e innovare possa farlo, e chi è contrario non possa più bloccare gli altri.

Si tratta di un "federalismo pragmatico" perché al momento non esistono le condizioni politiche per una vera federazione, "un federalismo basato su temi specifici, flessibile e capace di agire al di fuori dei meccanismi più lenti del processo decisionale dell'Ue" e che, soprattutto, "non richiedono che ogni Paese si muova allo stesso ritmo". Seguono alcuni esempi: "Paesi con settori tecnologici forti che concordano su un regime comune che consenta alle loro imprese di crescere rapidamente", "nazioni con industrie della difesa avanzate che uniscono ricerca e sviluppo e finanziano appalti congiunti" e "leader industriali che co-investono in settori critici come i semiconduttori o in infrastrutture di rete che riducono i costi energetici".

Questa visione si lega direttamente al Rapporto Draghi sul futuro della competitività europea, presentato il 9 settembre 2024: un documento monumentale di 383 raccomandazioni che delineava un'agenda di riforme profonde nei settori finanziari, energetici, tecnologici e della difesa. Il rapporto prevedeva anche la possibilità di creare debito comune per sostenere investimenti in ricerca e infrastrutture strategiche. Ma, a quasi un anno di distanza, l'attuazione è deludente. Secondo i dati dell'Osservatorio Draghi - istituito dallo European Policy Innovation Council - soltanto 43 raccomandazioni, l'11,2% del totale, sono state realizzate pienamente. Ma, soprattutto, di quei 750-800 miliardi annui di investimenti aggiuntivi si è un po' persa traccia se non nei meandri delle solite politiche green.

Eppure è proprio questo il nodo che Draghi ha voluto sciogliere nel suo

discorso: un'Europa capace di "agire con la velocità, la scala e l'intensità delle altre potenze globali", che "agisce non per paura del declino, ma per orgoglio di ciò che può ancora realizzare", una comunità capace di decidere.

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