L e fughe di notizie non sono tutte uguali, e soprattutto tutte uguali non sono le «talpe», gli uomini dello Stato che passano sottobanco le notizie ai giornalisti. Cancellieri e poliziotti, se le cose vanno male si possono scaricare e mettere sotto inchiesta. I magistrati no, quelli non si toccano, anche quando tutti gli indizi dicono che a fare o ordinare la soffiata sono stati loro. Comunque vada a finire l'inchiesta su Henry John Woodcock, e qualunque siano i veri motivi che l'hanno originata, bisogna prendere atto che si tratta di una novità quasi assoluta: per la prima volta un magistrato famoso si vede accusato di avere passato a un cronista notizie coperte da segreto istruttorio. Eppure le occasioni non sono mancate, in un paese dove le fughe di notizie sono all'ordine del giorno.
La scena si ripete sempre uguale: la notizia che doveva restare segreta finisce in prima pagina su un quotidiano; il procuratore titolare dell'inchiesta mostra indignazione, convoca i suoi sostituti, annuncia indagini serrate e senza indulgenze per dare un nome al traditore. Poi il tempo passa, l'indagine segna il passo, e scivola progressivamente nel dimenticatoio. Come non dimenticare la faccia decisa con cui Francesco Saverio Borrelli nel novembre 1994 annunciò una indagine per scoprire chi aveva passato al Corriere la notizia dell'avviso di garanzia a Berlusconi? E qualcuno è in grado di dire che fine abbia fatto quell'inchiesta?
Mani Pulite ha segnato l'apoteosi delle «soffiate» sistematiche ai giornali, ma il fenomeno è vecchio quanto la giustizia. Dalle inchieste sulle stragi a quelle sul mostro di Firenze, dalle indagini antimafia al caso Ruby, non c'è caso giudiziario che non abbia visto atti di ogni genere approdare nelle redazioni. Possibile che nessun colpevole sia mai stato scoperto? In realtà, quando lo scoop non risponde ai loro desideri, i magistrati sanno essere severi: a Milano venne sbattuto in galera Paolo Longanesi del Giornale, a Firenze Peppe D'Avanzo di Repubblica; a Palermo per mandare in cella due cronisti la Procura si inventò il reato di peculato, per il costo delle fotocopie che si erano fatti passare; e qua e là per il Paese, anche poliziotti e carabinieri sono finiti sotto processo per i regali fatti ai giornalisti senza chiedere il permesso al magistrato. Ma quando invece la fuga corrisponde ai desiderata dei pm, ai loro obiettivi - che siano politici, di carriera, di visibilità - le inchieste si arenano già prima di cominciare.
E quando proprio devono iniziare si fermano subito: a Torino un pm venne intercettato mentre incontrava un cronista, poco dopo dal suo computer partì un atto riservato verso la mail del giornalista: il pm venne prosciolto perché il computer poteva averlo manovrato qualcun altro. Garantismo allo stato puro. A Caltanissetta a casa di un cronista autore di uno scoop sulle intercettazioni d Totò Riina venne trovata una traccia che portava al pm Domenico Gozzo: assolto anche lui. A Catanzaro l'allora pm Luigi de Magistris venne messo sotto procedimento disciplinare per le tante fughe di notizie sull'inchiesta Why Not: il Csm come tutta sanzione lo spostò a Napoli, dove divenne sindaco.
Sono rari in realtà i casi in cui i magistrati si espongono direttamente, passando le carte al cronista amico. Quasi sempre c'è di mezzo un intermediario: nel caso di Woodcock, sarebbe stata la sua fidanzata, anch'essa giornalista; ma nella stragrande maggioranza dei casi a fare il lavoro sporco del passaggio sottobanco viene delegata la polizia giudiziaria, che dal pm riceve l'autorizzazione implicita o esplicita a «far girare le carte». Poco male quando si tratta di atti che sono già in mano agli imputati, formalmente coperti da segreto ma di fatto innocui.
Diverso il discorso quando il pm sceglie direttamente il «canale» giornalistico da utilizzare per rendere noto il suo lavoro e perseguire i suoi obiettivi: in questi casi si creano patti occulti, accordi di mutuo appoggio tra talpa e reporter che durano anni o decenni; e che con il diritto di cronaca non hanno molto a che fare.
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