Coronavirus

Tachipirina e cure a casa, passa la linea Speranza

I medici: "Nella prima ondata sarebbe cambiato poco, servivano mascherine e ossigeno"

Tachipirina e cure a casa, passa la linea Speranza

Una terapia domiciliare adeguata poteva salvare delle vite durante la prima fase della pandemia? Soprattutto nella Bergamasca, dove alcune persone sono morte in casa in pochi giorni? Secondo lo studio del professor Giuseppe Remuzzi e della sua equipe al Mario Negri «se il coronavirus fosse stato curato nella fase precoce con degli antinfiammatori» sì. Il contrario di quanto prevede oggi il protocollo Aifa, difeso dal ministro della Sanità Roberto Speranza, che ruota intorno a due cardini: «Paracetomolo e vigile attesa». Dello stesso avviso è stato il Consiglio di Stato, che ha bocciato la sentenza del Tar che lasciava ai medici la facoltà di «prescrivere i farmaci che ritenuti più opportuni secondo scienza e coscienza».

«Nella prima ondata un anti infiammatorio o una tachipirina non avrebbero fatto la differenza quanto strumenti di sorveglianza del paziente. Quello che è mancato ai medici di medicina generale - commenta con Il Giornale Guido Marinoni, presidente dell'Ordine dei medici di Bergamo - è stata la disponibilità di mascherine e protezioni individuali che ci è stata negata, e nonostante questo i colleghi - alcuni per questo sono morti - proteggendosi come potevano negli accessi domiciliari hanno curato a casa persone che avrebbero dovuto stare in ospedale. Quello che ha inciso in quei giorni è stata la mancanza di bombole di ossigeno e una piattaforma per il telemonitoraggio. Il problema non era tenere a casa pazienti per non sovraccaricare l'ospedale, era dover tenere a casa pazienti che, in condizioni ordinarie, sarebbero stati ricoverati».

Se l'Italia avesse avuto un piano pandemico aggiornato le cose sarebbero andate diversamente? Certamente, invece anziché darle ai medici il governo ha regalate 14 tonnellate di protezioni alla Cina con la pandemia silente già in casa. E sarà l'inchiesta della Procura di Bergamo innescata dall'esposto dei legali dei familiari delle vittime a doverlo valutare. Anche perché sul tavolo dei pm ci sono storie personali come quella del signor Antonio C. morto in 7 giorni, trascorsi tutti in casa: «Non è stata fatta diagnosi di Covid-19 poiché non c'era tampone e secondo i paramedici non sarebbe stato più il caso di farlo». Si erano ammalati prima la figlia e il genero dopo una visita all'ospedale di Alzano. Antonio aveva 88 anni, in perfetta forma ma il 3 marzo non riusciva già più a camminare: febbre alta, tosse, stanchezza enorme, «orecchie giallastre con venature bluastre». Portato via in un sacco nero, cremato ad Alessandria e recuperato solo dopo un pressing asfissiante.

«Non riesco nemmeno a piangerlo», dice la figlia.

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