Il plebiscito con cui Tsai Ing-wen è stata riconfermata presidente di Taiwan è un inequivocabile rifiuto della pretesa di Pechino che debba esistere una sola Cina, quella comunista, e che la piccola e orgogliosa isola nazionalista debba rassegnarsi a diventare «con le buone o con le cattive» una sua provincia. La linea dura della esponente indipendentista è stata premiata con un risultato trionfale: la difesa prioritaria della democrazia taiwanese e dei diritti civili che ne fanno un esempio di libertà per tutta la Cina le hanno fruttato oltre il 57% dei voti e quasi un milione e mezzo di suffragi in più rispetto alla meno ampia vittoria che aveva ottenuto quattro anni fa.
Anche le elezioni per il rinnovo del Parlamento, che si sono tenute contestualmente, hanno seguito la stessa falsariga: maggioranza assoluta confermata e ampliata per gli indipendentisti, sconfitta cocente per i nazionalisti del partito Kuomintang che avevano puntato su una linea politica di compromesso con la Cina, irrilevanza politica per i partiti minori. Vista da Pechino, si tratta di un'umiliazione. Né le blandizie né le minacce del presidente Xi Jinping hanno sortito il risultato sperato dalla dirigenza comunista, ossia l'affermazione del candidato del Kuomintang, il sindaco della metropoli meridionale di Kaohsiung Han Kuo-yu. Lo sfidante aveva insistito sugli aspetti economici, garantendo che maggiori legami politici con la «madrepatria» sarebbero stati ripagati con maggiore ricchezza. Ma l'esempio impietoso fornito dalla vicina Hong Kong, dove il dominio cinese significa un lento strangolamento delle libertà civili e politiche a dispetto delle promesse assunte da Pechino di rispettare il sistema dell'ex colonia britannica, ha convinto i taiwanesi a dare forza alla candidata che prometteva la strenua difesa delle loro libertà.
Dopo che il suo candidato Han Kuo-yu, che ha raggiunto appena il 38% dei voti, ha ammesso la sconfitta, il presidente del Kuomintang Wu Den-yih ha coerentemente dato le dimissioni. Tsai Ing-wen, nel suo discorso dopo la vittoria, si è rivolta direttamente alla Cina: «È tempo che Pechino abbandoni la sua minaccia di annetterci con la forza. Taiwan ha mostrato al mondo quanto tenga al suo stile di vita democratico e quanto sia forte la sua identità nazionale: la formula un Paese due sistemi che Pechino vorrebbe applicare anche con noi è stata respinta chiaramente dalla nostra gente. Non cederemo alle minacce e all'intimidazione. Il nostro futuro ce lo continueremo a scegliere da soli».
Da soli, ma anche con il fondamentale sostegno dell'alleato americano, che ieri non ha perso tempo nel festeggiare la riconferma della presidente Tsai, «dimostrazione del robusto sistema democratico di Taiwan, che speriamo continuerà a fungere da splendente esempio per i Paesi che lottano per un futuro migliore». Va ricordato che dal 1949, quando la rivoluzione maoista portò alla fondazione sulla terraferma della Repubblica Popolare Cinese, Taiwan è tutto ciò che rimane della preesistente Cina nazionalista: la sua indipendenza di fatto è contestata da Pechino, che oltre a minacciarne l'annessione si sforza di negarne la legittimità internazionale. Questo avviene per mezzo di un ricatto: chi vuole avere relazioni politiche (ed economiche) con Pechino non può averne contemporaneamente con Taipei.
Perciò quasi tutti i Paesi del mondo, inclusi gli Stati Uniti e i Paesi europei Italia compresa, riconoscono Pechino anche se mantengono rapporti amichevoli e commerciali con Taiwan. E Washington, in più, la difende armandola fino ai denti.
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