
È scattato il conto alla rovescia per i sindaci che puntano a candidarsi in Parlamento, un'ambizione piuttosto diffusa. La legge prevede che per essere candidabili, i sindaci delle città sopra i 20mila abitanti debbano «cessare dalle loro funzioni almeno 180 giorni prima della data di scadenza naturale del quinquennio di durata del Parlamento», cioè tassativamente sei mesi prima della fine della legislatura, altrimenti tanti saluti a Montecitorio e Palazzo Madama. Siccome l'attuale legislatura avrà la sua scadenza naturale il 15 marzo 2018, significa che i sindaci che aspirano ad un seggio devono dimettersi entro il 12 di questo mese (altri calcoli dicono il 14, comunque è questione di giorni). Se invece si va ad elezioni anticipate, l'obbligo non c'è più, a quel punto basta dimettersi entro sette giorni dal decreto che fisse le elezioni e ci si può candidare. Già, ma chi può sapere se si andrà ad elezioni in autunno, o se la legislatura alla fine terminerà alla scadenza naturale?
Nel dubbio, meglio dimettersi subito, anche se i più esperti fanno notare che quasi mai il termine naturale della legislatura viene rispettato, di solito si anticipa la scadenza anche solo di un giorno perché questo escamotage permette di semplificare la procedura burocratica per le successive elezioni. Però la certezza matematica non ce l'ha nessuno, e quindi molti sindaci, da nord a sud, stanno vivendo giorni tormentati per decidere se dimettersi adesso (e trovare il modo di spiegarlo ai propri elettori) oppure restare al proprio posto e poi vedere come va. Nella speranza magari che nel frattempo il Parlamento cambi i termini della norma.
Il più ingegnoso finora è stato il sindaco di Bisceglie, in Puglia, Francesco Spina, ex centrista poi passato col Pd in quota Emiliano. Spina, avvocato, ha trovato una geniale exit strategy: ha fatto causa al suo stesso Comune (su una vicenda di parcelle che lui stesso, in qualità di legale, aveva fatturato al Comune prima di essere eletto), rendendosi così incompatibile nella carica di sindaco. Così si è dimesso e alle elezioni sarà candidabile senza problemi dal Pd (ma non «sono affatto certo di avere un posto in lista» spiega lui). Sempre in Puglia è dato in uscita il sindaco di Conversano, Giuseppe Lovascio (Idea), e sono sotto osservazione sono anche i sindaci di Foggia, Monopoli e Andria. Quest'ultimo, Nicola Giorgino (Fi), ammette che «ci sono molti sindaci nelle mie condizioni. È possibile che il parlamento intervenga con una norma specifica». Il problema è che molti degli attuali parlamentari danno per scontata la riconferma, i posti in lista saranno limitati e ferocemente contesi, e dunque la corrente di chi non vuole modifiche ad hoc per candidare i sindaci in carica è molto forte.
In Toscana c'è l'azzurro Massimo Mallegni, sindaco di Pietrasanta, uno dei volti emergenti di Forza Italia, da qualche tempo lanciato nei talk show, in rampa per un upgrade nazionale alla carriera politica. Ma appunto, c'è il problema dei 180 giorni. Dunque: dimettersi? Magari con una chiamata ufficiale da parte del Cavaliere? O aspettare che il vincolo venga emendato? Un dilemma che sta logorando tanti primi cittadini.
Un altro azzurro in rampa di lancio è il sindaco di Ascoli, Guido Castelli, che però non avrebbe intenzione di dimettersi. A Reggio Calabria i rumors parlano di un seggio in ballo per il sindaco Giuseppe Falcomatà che, pur lanciato da Renzi, si candiderebbe però con Mdp. Mentre Marco Filippeschi, sindaco di Pisa, è dato già per sicuro come candidato di Renzi al Senato. A Imola, dopo un'estate di indiscrezioni, il sindaco Daniele Manca (Pd) ha deciso di restare. Non che non pensi al Parlamento, ma «ho fatto le mie verifiche» dice, «la causa di ineleggibilità è sempre stata bypassata negli ultimi 20 anni e mai considerata rilevante.
Ci sono stati anche sindaci ancora in carica al momento dell'elezione in Parlamento». Altri dati in bilico sarebbero il sindaco di Teramo e quello di Giulianova. Come poi molti in Campania, da Avellino a Caserta, da Nola ad Ariano Irpino. Tanti, troppi. E il tempo stringe.
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